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Tutti qui cercano di chiarire la natura degli universali e si sforzano di risolvere, contro l’intenzione del suo autore, la difficilissima questione che richiede profonda ricerca.
Uno, dunque, li fa consistere nelle voci, ma questa opinione, con il suo autore Roscellino è ormai quasi del tutto dimenticata.
Un altro prende in considerazione le parole con significato e ad esse cerca di ricondurre forzatamente tutto ciò che ovunque si trova scritto sugli universali. Questa fu l’opinione del Peripatetico Palatino, il nostro Abelardo, il quale ha lasciato molti seguaci e sostenitori di questa teoria e ne ha ancora alcuni. Sono miei amici, sebbene talvolta forzino talmente la lettera del testo di cui entrano in possesso, da suscitare anche la pietà nel cuore più duro. Essi sostengono che è mostruoso predicare una cosa di una cosa, sebbene autore di questa mostruosità sia lo stesso Aristotele, che molto spesso afferma che una cosa si predica di una cosa, come è manifesto a chi conosce bene le sue opere, a meno che non sia in malafede.
Un altro propende per i concetti e sostiene che i generi e le specie non sono altro che concetti. Costoro prendono lo spunto da Cicerone e Boezio che lodano Aristotele come autore appunto della teoria che gli universali vanno ritenuti e chiamati concetti. Dicono poi che la nozione è una conoscenza non ancora esplicita, che deriva dalla apprensione della forma di una certa cosa. In un altro passo (Boezio) dice: "La nozione è una intellezione e una semplice concezione dell’animo". Pertanto tutto ciò che si trova scritto si interpreta in modo da ricondurre tutti gli universali a intellezioni o concetti.
Molte poi e diverse sono le opinioni di coloro che restano attaccati alle cose. Poiché tutto ciò che è, è uno di numero, se ne conclude da qualcuno che la realtà universale o è numericamente una o non è affatto, ma poiché è impossibile che non esistano le essenze esistendo i soggetti di cui sono proprietà essenziali, concludono inoltre che gli universali devono essere uniti alle realtà individuali nell’essenza.
Allora distinguono i vari status seguendo Gualtiero di Mortagne, e dicono che Platone, in quanto Platone, è individuo; in quanto uomo, è specie; in quanto animale, è genere subordinato; in quanto sostanza, è genere sommo.
Questa teoria ha avuto alcuni sostenitori, ma ormai non la professa più nessuno.
C’è anche chi ammette le Idee, emulando in ciò Platone e imitando Bernardo di Chartres, ed affermano che i generi e le specie non sono altro che le Idee. Ora, secondo la definizione di Seneca, l’Idea è esemplare eterno delle cose prodotte dalla natura. E poiché gli universali non sono soggetti a corruzione né si alterano per movimento, mentre mutano le cose singolari che ad ogni momento vengono meno, mentre altre prendono il loro posto, per questo si afferma che gli universali propriamente e veramente esistono.
Le realtà singole sono considerate indegne di essere connotate con il verbo "essere", in senso sostantivo, perché non sono permanenti e sfuggono e non ci danno neppure il tempo di nominarle; esse infatti mutano talmente nella qualità, nel tempo, nel luogo, e nelle molteplici loro proprietà, che tutto il loro essere appare non già uno stato permanente, ma un fuggevole transito.
Afferma Boezio, infatti, che propriamente sono le cose che non crescono per aumento né diminuiscono per contrazione, ma permangono sempre identiche in forza della loro natura. E queste sono: le quantità, le qualità, le relazioni, i luoghi, i tempi, le proprietà e tutto ciò che si trova in qualche modo unito nei corpi. Queste sembrano mutare in quanto unite ai corpi, in realtà permangono immutabili nella loro natura. Così egualmente le specie delle cose restano identiche, mentre gli individui passano, come il fiume resta fermo, mentre le onde fluiscono; si dice infatti che il fiume resta lo stesso. Onde il detto riportato da Seneca, ma non suo: "Scendiamo e non scendiamo due volte nello stesso fiume".
Ora queste idee, cioè le forme esemplari, sono le ragioni eterne di tutte le cose, non soggette né a diminuzione né ad aumento, ma sono stabili e permanenti così che se anche tutto il mondo corporeo perisse, esse non verrebbero meno. Il numero di tutte le cose corporee consiste in esse; e, come sembra concludere S. Agostino nel De libero arbitrio, poiché le Idee sono sempre, il numero delle cose né aumenta né diminuisce, anche se tutte le cose temporali venissero meno.
Ora costoro ci promettono senza dubbio cose grandi e ben note ai filosofi che si dedicano alla contemplazione delle realtà più elevate, ma tutto ciò non ha niente a che fare con la dottrina di Aristotele, come attestano Boezio e molti altri autori. Lo stesso Aristotele infatti molto spesso critica questa dottrina, come si evidenzia dai suoi scritti.
Bernardo di Chartres ed i suoi seguaci molto si adoperano per conciliare Aristotele e Platone, ma credo che siano venuti troppo tardi ed abbiano lavorato invano per conciliare dei morti che, finché vissero, dissentirono.
C’è ancora chi, per interpretare Aristotele, attribuisce l’universalità alle "forme native" seguendo Gilberto vescovo di Poitiers e si affatica a spiegarne la conformità. La forma nativa poi è come l’immagine dell’originale; non esiste nella mente di Dio, ma inerisce alle cose create. In greco si chiama eidos e sta all’"Idea" come l’immagine al modello; è sensibile nelle cose sensibili, ma la mente la concepisce come non sensibile; è individuale nelle cose singole, ma universale in rapporto a tutti gli individui.
Un altro ancora, con il vescovo Gausleno di Soissons, attribuisce l’universalità alle cose prese collettivamente, e la nega alle cose singole. Ma poi, quando viene ad interpretare gli autori, si affatica invano con sofferenza, poiché, in molti passi, "non può sopportare la protesta del testo indignato".
C’è poi chi cerca una via d’uscita nell’aiuto di un nuovo linguaggio, perché ne sa poco di latino; quando infatti sente parlare di generi o di specie, ora afferma che si tratta di realtà universali, ora li interpreta come "maniere" delle cose. Non so in quale autore abbia scovato questo termine e questa distinzione; a meno che non l’abbia trovato fra le glosse o nel linguaggio di questi nuovi maestri. Ma non capisco neppure cosa voglia dire, a meno che non voglia significare con Gausleno la "collezione" delle cose, o una realtà universale, che però non può essere chiamata "maniera"; questo nome infatti può essere riferito ad entrambe le cose, perché "maniera" può essere detto il numero delle cose o lo status in cui una cosa permane. Infine non manca chi si rivolge agli status delle cose ed afferma che tali sono i generi e le specie.
Giovanni di Salisbury, Metalogicon, II, 17, in B. Maioli, Gli universali, pp. 358-63