Averroè
Il potenziale aristotelico

Se ammettessimo poi che l'intelletto materiale non si moltiplica secondo il numero degli individui, ne conseguirà che il suo rapporto con tutti gli individui esistenti nell'ultima loro perfezione nella generazione sia lo stesso, per cui necessariamente se uno di loro acquisisse qualche intelligibile tutti gli altri lo farebbero. Se allora la congiunzione di quegli individui dipende da quella dell'intelletto materiale con essi, come la congiunzione dell'uomo con l'intenzione sensibile si realizza mediante quella della perfezione prima del senso con il sostrato che la riceve, così la congiunzione dell'intelletto materiale con tutti gli uomini esistenti in atto, in un qualsiasi tempo nella loro ultima perfezione, deve essere la stessa: nulla infatti diversifica tali rapporti. Stando così le cose, inevitabilmente se tu acquisisci un qualche intelligibile anch'io lo acquisirei - il che è assurdo. Sia che l'ultima perfezione generata in qualsiasi individuo (quella mediante cui si unisce l'intelletto materiale) sia soggetta a questo intelletto e quasi-forma separabile dal sostrato con il quale si congiunge, sia che la perfezione consista in qualche facoltà dell'anima o del corpo, in entrambi i casi si hanno conseguenze assurde. Pertanto bisogna ammettere che, se esistono degli esseri animati la cui prima perfezione è una sostanza separata dai suoi sostrati come pensiamo dei corpi celesti - è impossibile che nelle loro specie si trovi più di un solo individuo. Se infatti nella medesima specie si trovasse più di un solo individuo - come in un corpo, che è mosso da uno stesso motore - allora il loro essere sarebbe inutile e superfluo, giacché il loro moto sarebbe determinato da un unico fine, come è vano che un solo pilota abbia molte navi in uno stesso tempo o un operaio più strumenti di una medesima specie. Questo è il senso di un passo del primo libro De coelo et mundo: se vi fosse un altro mondo vi sarebbe un altro corpo celeste, che a sua volta avrebbe un altro motore numericamente distinto e in tal caso quest'ultimo sarebbe materiale e numerato secondo il numero dei corpi celesti, poiché è assurdo che un solo motore lo sia di due corpi diversi. Perciò l'operaio non si serve di più d'uno strumento, da cui non potrebbe scaturire che una sola azione. Si ritiene universalmente che le assurdità in oggetto derivino dal porre l'intelletto in habitu come uno di numero. Molte di esse le indicò già Avempace nell'epistola intitolata Continuatio intellectus cum homine. Qual è allora la via per risolvere questo difficile problema?
Manifestamente l'uomo non comprende in atto se non per il congiungimento con lui dell'intelligibile in atto; del pari materia e forma si uniscono reciprocamente in modo che il risultato della loro commissione sia unico (soprattutto l'intelletto materiale e l'intenzione intelligibile in atto). Infatti il loro composto non è un terzo diverso da essi, come accade per gli altri composti di materia e forma. La congiunzione dell'intelligibile con l'uomo non può determinarsi se non per la congiunzione con lui di una delle due parti, precisamente di quella che in lui è quasi-materia e di quella che nell'intelligibile è quasi-forma. Risultando chiara dalle precedenti obiezioni l'impossibilità che l'intelligibile si congiunga con ognuno degli uomini e che sia moltiplicato per il loro numero, per la parte di esso che è quasi-materia (l'intelletto materiale), rimane solo la possibilità che la congiunzione degli intelligibili con noi uomini si compia attraverso l'intenzione intelligibile (i fantasmi immaginativi), cioè per congiunzione della parte di essi che sta in noi come quasi-forma. Pertanto dire che il fanciullo intende in potenza può significare due cose: o che le forme immaginate in lui sono intelligibili in potenza o che l'intelletto materiale, atto per natura a ricevere l'intelligibile di quella forma immaginata, è ricettivo e congiunto a noi in potenza.
Abbiamo visto che la prima perfezione dell'intelletto differisce dalle prime perfezioni delle altre facoltà dell'anima e anche che il termine "perfezione" viene impiegato per esse in modo equivoco, al contrario di quanto pensò Alessandro di Afrodisia. Pertanto Aristotele definì l'anima prima perfezione del corpo naturale organico, ma non è ancora chiaro se il corpo si perfeziona per tutte le facoltà nello stesso modo o se vi sia una qualche facoltà per cui il corpo non si perfeziona o lo fa in altro modo. La preparazione che è nella facoltà immaginativa è simile a quelle che sono nelle altre facoltà dell'anima, cioè alle loro perfezioni prime, poiché tutte sono generate con la generazione degli individui e si corrompono per la loro corruzione e universalmente si numerano secondo gli individui. Differiscono in ciò, che l'una è preparazione nel motore ad essere motore, ossia risiede nei fantasmi immaginativi; l'altra è preparazione nel ricevente, ed è quella che si trova nelle perfezioni prime delle altre parti dell'anima. Per tale similitudine tra i due tipi Avempace pensò non esservi alcuna preparazione per intendere un oggetto se non quella esistente nei fantasmi immaginativi. Ma le due preparazioni differiscono quanto la terra dal cielo: l'una infatti dispone il motore ad essere motore, l'altra il mobile ad essere mosso e ricettivo. Pertanto si deve ritenere - come mi parve evidente dal discorso di Aristotele - che nell'anima vi siano i fantasmi e l'intelletto speculativo è uno solo per tutti gli uomini.
Se consideriamo invero gli intelligibili in assoluto e non rispetto ai singoli individui, giustamente essi si dicono eterni e non sono intelligibili ora sì ora no, ma sempre. Il loro essere è in certo modo intermedio fra il transeunte e l'eterno in quanto, a seconda del grado diverso che avranno rispetto all'ultima perfezione, sono generabili e corruttibili, mentre in quanto unici sono eterni. Questo avverrebbe se non si affermasse che la disposizione nell'ultima perfezione dell'uomo è identica a quella che è negli intelligibili comuni a tutti, che cioè l'essere del mondo non è separato da quello dell'individuo singolo. Che questo sia impossibile non è dimostrato, anzi chi lo sostiene può avere una ragione sufficiente e soddisfacente. Infatti, poiché è possibile che il sapere e le arti ineriscano all'uomo come qualcosa di proprio, si ritiene impossibile che all'universo abitato non ineriscano la filosofia e le arti naturali. Se infatti a qualche parte del mondo - diciamo al quarto settentrionale della terra - non inerissero le arti naturali, non ne sarebbero invece privi gli altri quarti della terra, poiché è stato provato che ci sono abitanti nella parte meridionale come nella settentrionale. La filosofia, dunque, si troverà forse realizzata nella parte maggiore di un soggetto considerato in ogni tempo, allo stesso modo in cui l'uomo si realizza dall'uomo e il cavallo dal cavallo. L'intelletto speculativo, per questo rispetto, non è generabile né corruttibile.
L'intelletto agente che crea gli intelligibili è come quello che distingue e riceve. Nello stesso modo in cui, infatti, l'intelletto agente non cessa mai per sé di generare e creare, anche se dalla generazione sfugge qualche soggetto, così accade per l'intelletto che distingue. A ciò si riferiva Aristotele nella prima parte di questa trattazione scrivendo: anche il pensare e l'esercizio del conoscere si spengono quando qualche altra cosa interna si corrompe, l'intelletto però è incorruttibile. Per qualche altra cosa intende le forme immaginative dell'uomo. Per pensare, intende la ricezione che è sempre nell'intelletto materiale, della quale comincia a discutere quando dice: e noi non ricordiamo, perché è impassivo, mentre l'intelletto passivo è corruttibile e senza questo non intenderebbe nulla. Con "intelletto passivo" egli si riferisce alla facoltà immaginativa, come si dirà appresso. In generale si considerò immortale l'anima, cioè l'intelletto speculativo. Platone disse infatti che gli universali non sono generabili né corruttibili ed esistono fuori della mente. L'affermazione è vera in questo senso, ma falsa se presa alla lettera (ed è quanto Aristotele cercò di confutare nella sua Metafisica). Siffatta concezione dell'anima è in parte vera nelle proposizioni probabili che attribuiscono all'anima l'uno o l'altro essere, ossia mortale e immortale; le formulazioni probabili, infatti, non possono essere del tutto false. Su questo c'è un generale accordo degli antichi. Si risolve così il terzo problema, se cioè l'intelletto materiale sia un ente, poiché non è una delle forme materiali e neppure la materia prima. Lo si deve ritenere un quarto genere di essere. Come infatti l'essere sensibile si divide in forma e materia, così l'essere intelligibile si dividerà in due parti simili a queste, cioè una simile alla forma e una simile alla materia. Ciò deve verificarsi in ogni intelligenza separata che intenda qualcosa di altro da sé; se così non fosse, non vi sarebbe molteplicità nelle forme separate. Si afferma nella Metafisica che non esiste forma assolutamente priva di potenza se non la prima forma, la quale non intende nulla fuori di sé, ma la cui esistenza è la sua quiddità; mentre nelle altre forme si distinguono quiddità ed esistenza in qualunque modo. Se non vi fosse il genere di enti che abbiamo conosciuti con la scienza dell'anima, non potremmo intendere la molteplicità delle cose separate, nello stesso modo in cui, se non conoscessimo la natura stessa dell'intelletto, non saremmo in grado di intendere che le virtù motrici separate devono essere intelligenze. Ciò è sfuggito a molti moderni, al punto che essi sono giunti a negare quello che Aristotele ha detto nel libro XI (XII) della Metafisica: che di necessità le forme separate che muovono i corpi celesti sono tante quanti i corpi celesti. Pertanto la scienza dell'anima è necessaria alla metafisica e l'intelletto ricettivo deve poter intendere l'intelletto in atto. Se infatti intende le forme materiali tanto più deve intendere le immateriali; il fatto di intendere le forme separate, cioè l'intelletto agente, non gli impedisce di intendere quelle materiali.
L'affermazione che il ricevente non deve avere nulla in atto di quanto riceve, non vale assolutamente ma con una imitazione: non è obbligatorio che il ricevente non sia assolutamente alcunché in atto, ma solo che esso non sia in atto qualcosa di quanto riceve, come dicemmo precedentemente. Anzi bisogna sapere che il rapporto dell'intelletto agente con questo intelletto è lo stesso della luce con il corpo diafano e il rapporto delle forme materiali con il medesimo è come quello del colore con il diafano. Come infatti la luce è la perfezione del corpo trasparente, l'intelletto agente lo è del materiale. Come il corpo diafano non è mosso dal colore né riceve gli intelligibili che sono qui se non in quanto perfezionato e illuminato da quell'intelletto, così questo intelletto non riceve gli intelligibili che sono qui se non in quanto perfezionato e illuminato da quell'intelletto. Se la luce fa si che il colore in potenza divenga colore in atto, sì da poter muovere il corpo diafano, parimenti l'intelletto agente fa passare in atto le intenzioni intelligibili in potenza affinché l'intelletto materiale le riceva. In tal modo vanno concepiti intelletto materiale e agente.
Una volta che l'intelletto materiale si è perfezionato unendosi con l'agente, allora noi siamo uniti con esso e tale disposizione è detta "acquisto" [adeptio] e "intelletto acquisito" [Intellectus adeptus], come si vedrà in seguito. Con questa concezione della natura dell'intelletto materiale si risolvono tutti i problemi connessi con la nostra precedente affermazione, che l'intelletto è uno e molteplice. Giacché se l'intelligibile in me e in te fosse lo stesso per tutti gli aspetti, ne conseguirebbe che conoscendo io un oggetto anche tu lo conosceresti e molte altre assurdità. Se affermassimo che esso è molteplice, ne conseguirebbe che lo stesso intelligibile in me e in te sarebbe uno nella specie e due negli individui, si darebbe così un altro intelligibile di un intelligibile e via all'infinito. Sarebbe anche impossibile che il discepolo impari dal maestro, se la scienza del maestro non fosse virtù generante e creatrice di quella del discepolo, nello stesso modo in cui un fuoco ne genera un altro simile per specie - il che è assurdo. Il fatto che il conosciuto è lo stesso nel maestro e nel discepolo ha fatto credere a Platone che la scienza fosse un ricordare. Se ammettiamo invece che l'intelligibile in me e in te è molteplice rispetto al sostrato secondo cui è vero (cioè le forme dell'immaginazione) e uno rispetto al sostrato secondo cui è un ente intelligibile (cioè l'intelletto materiale), tutti i problemi vengono risolti perfettamente.
Il modo poi in cui Avempace pensò di risolvere i problemi che derivano dall'unità o molteplicità dell'intelletto nell'epistola sulla Continuatio - non è molto conveniente. L'intelletto infatti che egli in quella lettera dimostra essere uno è diverso da quello che lo stesso dimostra essere molteplice, poiché l'intelletto che egli dimostrò uno è l'agente, in quanto necessariamente forma dell'intelletto speculativo, mentre quello che dimostrò molteplice è lo stesso speculativa, usato in modo equivoco. Anzi il termine " intelletto unico" è usato in modo equivoco tanto per lo Speculativo che per l'agente. Se il suo significato nelle due argomentazioni opposte - una concludente per la molteplicità l'altra per l'unità - non vuole essere equivoco, allora il fatto che l'intelletto agente sia uno e lo speculativo molti non risolve il problema. Se poi intelletto nelle due opposte argomentazioni è detto equivocamente, allora l'impostazione sarà sofistica e non dialettica. Bisogna pertanto credere che i problemi discussi da quel dotto nell'epistola si chiariscano solo così, se l'impostazione non è sofistica ma dialettica.

Averroè, Grande commento al terzo libro del De Anima di Aristotele, commento 5, tradotto in Averroè e l'intelletto pubblico. Antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima, introduzione e cura di Augusto Illuminati, Manifestolibri, Roma 1996, p. 139-147

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