Platone
I poeti “non sanno niente di ciò che dicono”

(Socrate): Dopo gli uomini politici andai dai poeti, sì da quelli che scrivono tragedie e ditirambi come dagli altri; persuaso che davanti a costoro avrei potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità. Prendevo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi domandavo che cosa volevano dire; perché così avrei imparato anch'io da loro qualche cosa. O cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che ve la dica. Insomma, tutte quante, si può dire, le altre persone che erano presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli argomenti che i poeti stessi avevano poetato. E così anche dei poeti in breve conobbi questo, che non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale disposizione e ispirazione, come gl'indovini e i vaticinatori; i quali infatti dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che dicono: presso a poco lo stesso, lo vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E insieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia, credevano essere i più sapienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non erano affatto.

Platone, Apologia di Socrate, 22 b-c, tr. it. di M. Valgimigli in Opere complete, vol. 1, Laterza, Roma-Bari 1988

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