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Spiegherò ora che cosa sia il piacere di per sé... Noi non ricerchiamo solo quel piacere che muove il nostro istinto naturale con un senso di delizia e che è percepito dai nostri sensi con piacevolezza, ma consideriamo massimo piacere quello la cui percezione consiste nella soppressione del dolore. Infatti, poiché nel liberarci dal dolore godiamo della stessa liberazione e del sentirci esenti da ogni fastidio, e poiché ogni godimento non è altro che piacere, così come tutto ciò che ci offende in qualche modo è dolore, a ragione ogni soppressione del dolore si può chiamare piacere. Così come, quando la fame e la sete vengono rimosse con cibo o bevanda, la soppressione della sofferenza porta di conseguenza il piacere, così in ogni cosa la rimozione del dolore porta di immediata conseguenza il piacere. Per questa ragione Epicuro rifiutò la tesi che possa esservi uno stato intermedio fra piacere e dolore: egli riteneva che quello che ad alcuni sembra uno stato intermedio, in quanto semplice assenza di dolore, fosse non solo piacere, ma piacere supremo. Chiunque avverte, infatti, quale sia la sua affezione del momento, si trova di necessità in uno stato o di piacere o di dolore; ed Epicuro ritiene che nella privazione di dolore ha il suo culmine il piacere, sì che si può andare più oltre nella variazione e differenziazione dei piaceri, ma non nell’accrescimento e nell’intensificazione di essi...
Che il piacere sia il supremo dei beni, lo si può capire facilissimamente da questo. Immaginiamoci qualcuno che si trovi in uno stato di godimento di grandi, molti e continui piaceri d’animo e di corpo: quale stato potremmo considerare migliore e più desiderabile di questo ? In colui che si trovi in tale stato dev’esserci necessariamente anche fermezza d’animo, senza timore di morte né di dolore, perché la morte significa la perdita della facoltà di sentire e il dolore abitualmente se è lungo è anche leggero, se è violento è breve, cosicché la brevità porta sollievo all’intensità, la tenuità alla lunga durata. Se a ciò si aggiunge il fatto ch’egli non ha timore della divinità, e, inoltre, che non permette che i piaceri del passato si dissolvano completamente ma continua ad allietarsi del loro costante ricordo, che cosa potrà ancora esserci di meglio oltre a tutto questo ? Si supponga, al contrario, un essere sfinito dalle più grandi sofferenze d’animo e di corpo che possano venire a colpire un essere umano, senza alcuna speranza che queste da un momento all’altro si alleviino, senza alcun piacere presente e senza l’attesa di alcun piacere: che cosa si può dire o immaginare di più misero ? E se soprattutto è da fuggirsi una vita piena di dolori, è evidente che il sommo fra i mali è il vivere nel dolore: principio da porsi in coerenza con quello secondo cui il sommo fra i beni è il vivere nel piacere. La nostra mente infatti non ha alcuna salda certezza in cui riposare in ultima istanza; e tutti i timori e tutte le afflizioni vengono rapportate al dolore, mentre non vi è alcuna cosa che di sua natura possa veramente angosciare o affliggere. Inoltre il ricercare, il rifuggire, l’agire stesso traggono il loro impulso dal piacere o dal dolore. Stando così le cose, è evidente che tutte le azioni rette e lodevoli si rapportano a questo fine, al vivere nel piacere. E, dal momento che il sommo o l’estremo e l’ultimo dei beni (che i Greci chiamano tèlos) è quello che non è ordinato ad altro, mentre ad esso è ordinato tutto il resto, bisogna ammettere che il sommo bene è vivere piacevolmente.
Testimonianze sulla dottrina di Epicuro: Cicerone, De Finibus, I, 9, 37-42 (Usener, fr. 397), in Opere di Epicuro, a cura di M. Isnardi Parente, UTET, Torino 1983, pp. 414 s.