Cicerone
Epicuro e il piacere come bene

Cerchiamo dunque quale sia il sommo fra tutti i beni. Per opinione di tutti i filosofi, questo deve essere tale che ad esso siano ordinate tutte le cose, esso stesso a niente altro. Epicuro pone il sommo bene nel piacere, così come nel dolore l'estremo dei mali. Questa sua dottrina si può enunciare nel modo che segue.
Appena nato, ogni essere vivente tende al piacere, gode di esso come del sommo bene, rifugge dal dolore come dal sommo male e lo respinge da sé il più possibile; e compie tutto questo senza ancora aver subito alcuna corruzione, seguendo il criterio della natura ancora innocente e integro. Epicuro perciò nega che vi sia bisogno dì ragionamento e di argomentazione per provare perché il piacere sia da scegliersi e il dolore da respingersi: ritiene infatti che ciò sia oggetto di sensazione immediata, come il fatto che il fuoco è caldo, la neve è bianca, il miele è dolce, cose di cui nessuna deve essere provata con ragionamenti appositi, ma che basta semplicemente enunciare[…]. Dal momento che, se viene meno la facoltà di sentire, non rimane all'uomo niente, bisogna giudicare in base alla stessa natura che cosa sia contro o secondo natura: e questa che cosa può percepire o giudicare che sia da scegliersi o da fuggirsi se non il piacere o il dolore? [...]
Perché comprendiate bene in che consista l'errore di coloro che condannano il piacere ed esaltano il dolore; cercherò di illustrare bene tutta la questione, e di spiegare adeguatamente la dottrina di quello scopritore della verità e, vorrei dire, architetto della vita felice. Nessuno infatti odia o disprezza o fugge il piacere in sé, per il fatto che sia tale, ma perché a chi non è capace di cercarlo ragionevolmente conseguono in generale grandi dolori. Né certo vi è alcuno che ami, ricerchi e si sforzi di conseguire il dolore di per sé, per il fatto che sia tale, ma perché talvolta le circostanze fan sì ch'egli debba cercare di ottenere un grande piacere per mezzo di fatica e dolore. Per valermi degli esempi più alla portata: chi di noi sosterrebbe un'esercitazione fisica faticosa se non per ottenerne un qualche vantaggio? Chi potrebbe a buon diritto rimproverare colui che desideri vivere in una condizione di piacere tale da non poter dar luogo ad alcun fastidio, o colui che rifugga da quel dolore per mezzo del quale non si può conseguire alcun piacere? Accusiamo invece, e riteniamo degni di giusta riprovazione, coloro che. rammolliti e corrotti dalle delizie dei piaceri che al presente godono, non siano capaci, per l'accecamento della loro bramosia, di prevedere quali dolori e fastidi stiano loro per sopravvenire; e in una colpa del genere sono anche coloro che trascurano i loro doveri per viltà d'animo, cioè per paura di fatiche e sofferenze. Non è difficile il saper giudicare rettamente circa tutte queste cose. In momenti di libertà, quando la facoltà di scelta è del tutto a nostra discrezione e niente ci impedisce di fare quello che desideriamo ogni piacere è da scegliersi, ogni dolore da rifiutarsi. Ma in tempi determinati, o per doveri che ci incombono o per la pressione delle circostanze, può anche avvenire che si debbano respingere i piaceri, non rifiutare i fastidi. Dal sapiente questa scelta è compiuta in modo tale che i piaceri vengono da lui respinti allo scopo di conquistarsene altri maggiori, i dolori vengono da lui tollerati per evitarsene altri più aspri […].
Spiegherò ora che cosa sia il piacere di per sé […]. Noi non ricerchiamo solo quel piacere che muove il nostro istinto naturale con un senso di delizia e che è percepito dai nostri sensi con piacevolezza, ma consideriamo massimo piacere quello la cui percezione consiste nella soppressione del dolore. Infatti, poiché nel liberarci dal dolore godiamo della stessa liberazione e del sentirci esenti da ogni fastidio, e poiché ogni godimento non è altro che piacere, così come tutto ciò che ci offende in qualche modo è dolore, a ragione ogni soppressione del dolore si può chiamare piacere. Così come, quando la fame e la sete vengono rimosse con cibo o bevanda, la soppressione della sofferenza porta di conseguenza il piacere, così in ogni cosa la rimozione del dolore porta di immediata conseguenza il piacere. Per questa ragione Epicuro rifiutò la tesi che possa esservi uno stato intermedio fra piacere e dolore: egli riteneva che quello che ad alcuni sembra uno stato intermedio, in quanto semplice assenza di dolore, fosse non solo piacere, ma piacere supremo. Chiunque avverte, infatti, quale sia la sua affezione del momento, si trova di necessità in uno stato o di piacere o di dolore; ed Epicuro ritiene che nella privazione di dolore ha il suo culmine il piacere, sì che si può andare più oltre nella variazione e differenziazione dei piaceri, ma non nell'accrescimento e nell'intensificazione di essi.

Cicerone, De finibus, 1, 9, 29 segg., traduzione di M. Isnardi Parente in Epicuro, Opere, UTET 1983, pp. 401-3

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