Agostino
Il potere e la giustizia

Ora pertanto esaminiamo che senso abbia la pretesa di attribuire tutta l'estensione e la durata dell'impero romano a quegli dèi, che i pagani considerano onestamente venerati con l'offerta di rappresentazioni ignobili ad opera di uomini ignobili. A dire il vero, per cominciare, vorrei un po' domandare secondo quale principio e quale saggezza essi vogliono gloriarsi della estensione e della grandezza dell'impero, quando non possono presentare come felici gli uomini che costantemente sono in mezzo a disastri bellici, tra il sangue di concittadini o di nemici (ma pur sempre sangue umano), in preda ad un'oscura angoscia e ad una sanguinaria passione, onde procurarsi una gioia che abbia lo splendore e insieme la fragilità del vetro, di cui si tema la improvvisa rottura.
Per esprimere un giudizio in modo più agevole, non dobbiamo perderci in una stupida e vanitosa iattanza, né dobbiamo spegnere l'attenzione dello spirito dinanzi ad espressioni altisonanti, come: popoli, regni, province. Pensiamo piuttosto a due uomini (ogni uomo singolo, infatti, così come una lettera nel discorso, è in un certo senso elemento costitutivo della città e del regno, indipendentemente dalla vastità del territorio); dei due immaginiamo che l'uno sia povero o, piuttosto, di condizione modesta, mentre l'altro molto ricco. Il ricco però è angosciato da paure, stretto da amarezze, brucia di passioni; non è mai sicuro, costantemente inquieto, affannato da continue tensioni con i suoi avversari. Certo, fra tanta infelicità, riesce ad accrescere smisuratamente il suo patrimonio, anche se questa crescita si confonde con quella di amarissime preoccupazioni. L'uomo di modeste condizioni, invece, è pago del suo esiguo e limitato patrimonio, molto amato dai suoi, gode con i parenti, i vicini, gli amici di una pace piacevolissima, è devoto nella vita religiosa, di animo benevolo; fisicamente sano, ha una condotta moderata e casta, una coscienza tranquilla. Io non so se può esistere qualcuno tanto folle da osare di mettere in dubbio chi dei due preferire.
Come dunque per questi due uomini, così pure per due famiglie, per due popoli o per due regni vale la stessa regola di imparzialità; se applicata con vigile e retta intenzione, risulterà più facilmente dove regna la vanità e dove la felicità. Per questo, se si adora il Dio vero e lo si serve con autentici sacrifici e purezza di costumi, risulta utile che il regno dei buoni si prolunghi e si estenda da ogni parte; ed è utile non tanto per essi, quanto per gli uomini governati. Difatti, per quanto li riguarda, la loro devozione e onestà, importanti doni di Dio, bastano a renderli veramente felici, per condurre bene questa vita e poi godere quella eterna. Su questa terra, quindi, un regno di buoni non è per loro stessi, ma per l'umanità, mentre uno di cattivi nuoce soprattutto ad essi, che finiscono col compromettere la propria anima con una licenza sfrenata nei delitti; a quelli che sono loro sottomessi, del resto, può nuocere soltanto la propria iniquità. Infatti il male che viene inflitto al giusto da chi comanda in modo iniquo non è punizione d'una colpa, ma prova della virtù; pertanto chi è buono, anche se in condizioni di dipendenza, è libero, mentre chi è cattivo, anche se comanda, è schiavo, e non di un solo uomo, ma, ciò che è più grave, di tanti padroni quanti sono i suoi vizi. A proposito di tali vizi, la Sacra Scrittura dice: Uno è schiavo di ciò che l'ha vinto.
Una volta che si è rinunciato alla giustizia, che cosa sono gli Stati, se non una grossa accozzaglia di malfattori?' Anche i malfattori, del resto, non formano dei piccoli Stati? Si tratta infatti di un gruppo di uomini comandati da un capo, tenuti assieme da un patto comune e che si spartiscono un bottino secondo una legge tacita. Se questo male si allarga sempre più a uomini scellerati, se occupa una regione, fissa una sede, conquista città e soggioga popoli, assume più apertamente il nome di regno, che non gli viene dalla rinuncia alla cupidigia, ma dal conseguimento dell'impunità. Questa la risposta, vera e opportuna, che un pirata catturato diede ad Alessandro Magno. Avendogli questi domandato perché gli sembrasse giusto infestare i mari, quello con spregiudicata fierezza rispose: " Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con una barca insignificante, mi chiamano malfattore, e poiché tu lo fai con una flotta eccezionale, ti chiamano imperatore".

Agostino, La Città di Dio, l. IV, 3-4, Rusconi, Milano 1990

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