Giovanni Scoto Eriugena
Il mondo corporeo

M. - Non ti sfugge, credo, che nessuna delle dieci categorie aristoteliche, quando è considerata per se stessa, cioè nella sua natura, dallo sguardo della ragione, soggiace ai sensi corporei. La usìa, infatti, è incorporea, e non sottostà a nessun senso corporeo, e le altre nove categorie o sono nella usía o si riferiscono ad essa. E perciò, se essa è incorporea, non ti sembra che tutto ciò che le aderisce o in lei sussiste e non può essere senza di lei, sia incorporeo?
Tutte le categorie, dunque, sono incorporee, per sé considerate. Alcune di esse, tuttavia, per una mirabile unione fra loro, come dice Gregorio, costituiscono la materia visibile; altre invece non appaiono in nessun modo e sono sempre incorporee. L’usta, infatti, la relazione, il luogo, il tempo, l’agire e il patire non si colgono con nessun senso corporeo. Invece la quantità, la qualità, il situs e l’habitus, quando, unendosi, costituiscono la materia, sono percepite dal senso corporeo. […].
D. - Ma bisogna dire brevemente qualche cosa contro coloro che identificano il corpo con l’essenza del corpo, a tal punto sedotti da non dubitare che la sostanza stessa sia corporea, visibile e trattabile […].
M. - Considera attentamente queste poche conclusioni dialettiche. Ogni corpo, composto di materia e di forma, poiché si può dissolvere, è corruttibile; ora il corpo mortale consta di materia e di forma; dunque è corruttibile. Invece: ogni usìa è semplice, e non riceve composizione di materia e forma, perché è una unità inseparabile; dunque non si può ragionevolmente ammettere che nessuna usìa sia un corpo mortale. Ho detto questo perché, sebbene ogni usìa si concepisca composta di essenza e differenza essenziale (nessuna essenza incorporea è priva infatti di questa composizione, perché la stessa essenza divina, che non solo è semplice, ma più che semplice, è suscettibile di differenze essenziali: vi è infatti in lei la sostanza ingenita, quella generata e quella che procede), tuttavia la composizione che si conosce con la sola ragione, e non è confermata da nessun atto o operazione, deve esser giudicata come semplicità.
Se poi vuoi confermarti nella persuasione che l’usìa, ossia l’essenza, è incorruttibile, leggi il libro di S. Dionigi Areopagita Dei nomi divini, lì dove parla della natura dei demoni e della loro malizia, che non può corrompere né la loro essenza né quella di altri, e troverai che egli dimostra in modo sottilissimo che nessuna cosa esistente, in quanto è essenza e natura, si può corrompere […].
E perciò aggiungi che il corpo più esattamente si dice quanto che quantità, poiché quegli accidenti che si dicono naturali, quando si considerano naturalmente in se stessi, sono incorporei e indivisibili. Il corpo dunque non è la quantità della usìa, ma il quanto, come il colore visibile, che è sentito nel corpo, non è qualità dell’usìa, ma un quale costituito nel quanto e così via.
M. - Non si deve dunque dire con probabilità che tutto ciò che è costituito di quantità e qualità trae la causa della sua costituzione dall’usìa, alla quale naturalmente ineriscono, come primi accidenti, la quantità e la qualità, e senza la quale non possono essere? Tutto quello infatti che deriva da ciò che è nella fonte deve esser riferito alla fonte stessa, specialmente perché l’usìa stessa, in quanto tale, non può in alcun modo apparire visibilmente, né esser maneggiata ed occupare spazio. Il concorso degli accidenti, invece, che le ineriscono o la circondano può creare qualcosa di spazioso per generazione. La quantità e la qualità infatti costituiscono il quanto e il quale, e questi due uniti, quando son generati in una certa misura e in un certo tempo, danno luogo al corpo intero. Gli altri accidenti sopraggiungono a questi.

M. - Dimmi dunque, che cosa pensi della materia dalla quale derivano i corpi formati? Per sé, mentre è ancora informe, è appresa dal senso o dalla ragione?
D. - Dalla ragione, diamine. Non oserei dire dal senso, poiché una materia priva di forma non può essere colta da nessun senso corporeo […].
M. - E allora la materia informe, poiché è appresa solo dall’occhio dello spirito, voglio dire dalla ragione, non è necessariamente incorporea?
D. - Non oserei negare neppur questo.
M. - Dunque è incorporea.
Sia dunque la materia informe o mutabilità capace di forme, secondo Agostino e Platone, o informità priva di specie, di forma e di ornato, secondo Dionigi; non negherai, credo, che se mai può esser conosciuta, può essere appresa solo dall’intelletto.
D. - Ormai l’ho ammesso fermamente.
M. - E che? Pensi che si possa considerare altrimenti che con l’occhio dello spirito la specie stessa e la forma e l’ornato, per la cui partecipazione quella informità e mutevolezza, di cui abbiamo parlato, diventa materia?
D. - No. Già abbiamo dimostrato infatti coi precedenti ragionamenti che la forma e la specie, senza le quali non c’è ornato, sono affatto incorporee.
M. - Vedi dunque, ora, che da realtà incorporee, cioè dalla informità mutevole capace di forme, e dalla forma stessa, si costituisce un che di corporeo, ossia la materia e il corpo.
D. - Vedo proprio.
M. - Concedi dunque che i corpi possono sorgere dalla unione di realtà incorporee.
D. - Lo concedo, costretto dalla ragione […].
M. - Ti è chiaro ora che non a torto abbiamo detto, seguendo l’autorità di S. Gregorio di Nissa, che i corpi sorgono per il concorrere di accidenti - quando vedi che altri autori, sia greci sia latini,, asseriscono che i corpi sorgono da realtà incorporee?

Giovanni Scoto Eriugena, La divisione della natura, lib. I, capp. 34 sgg. e 56-58; trad. it. in Grande Antologia Filosofica, IV, Marzorati, Milano 1966, pp. 662-663

apri questo documento in Word