Agostino
Cristo come centro della storia

Le due città e la loro opposizione Si vede chiaramente come esistono due città e due regni e due re, Cristo e il diavolo, e ambedue regnano sopra ciascuna delle due città. L’una di esse desidera servire al diavolo, l’altra a Cristo; la prima desidera di tenere il regno in questo mondo, la seconda di fuggire da questo mondo; l’una si rattrista, l’altra si rallegra; l’una flagella, l’altra è flagellata; l’una uccide, l’altra è uccisa; l’una cerca di essere giustificata (da Dio), l’altra cerca ancora di agire empiamente. Ciascuna di esse tende al suo scopo, l’una per accumulare i motivi della sua condanna, l’altra per ottenere di essere salvata. Origine delle due Città dai due amori dell’uomo Pertanto due Città sono derivate da due diversi amori: la città terrena dall’amore di sé fino al dispregio di Dio, e la città celeste dall’amore di Dio fino al dispregio di sé. A dirlo in breve, quella si gloria di sé medesima, questa si gloria in Dio. Quella, in verità, cerca la gloria dagli uomini; a questa invece è massima gloria Dio, testimone della coscienza. Quella nella sua gloria si esalta di orgoglio, questa dice al suo Dio: "Tu, o Signore, sei la mia gloria, tu innalzi il capo mio" (Salmo 3, 3). In quella la smania del signoreggiare invade i principi e le nazioni da essi soggiogate; in questa si servono a vicenda, in carità, le autorità col provvedere e i sudditi con l’ubbidire. Quella nei suoi potenti ama la sua fortezza; questa dice al Dio suo: "Amo te, o mio Signore, fortezza mia" (Salmo 16, 2). E perciò in quella i suoi sapienti, vivendo secondo l’uomo, hanno ricercato il loro sommo bene o nel corpo o nel proprio animo, o nel corpo e nell’animo presi insieme; o se anche poterono "conoscere Dio non lo glorificarono come Dio né a Lui resero grazie, ma vaneggiarono nei loro pensieri e si ottenebrò lo stolto loro cuore" (Romani, 1, 21); innalzandosi nella loro superbia, divennero folli e mutarono la gloria dell’incorruttibile Dio nella similitudine dell’immagine del corruttibile uomo, e di uccelli e di quadrupedi e di serpenti (id., 22-23); nell’adorazione di siffatti "simulacri prestarono il loro culto e servirono alla creatura piuttosto che al Creatore il quale è benedetto nei secoli" (id., 25). Ma nella Città celeste è nulla la sapienza dell’uomo se non è accompagnata dalla pietà con cui degnamente si adora il vero Dio, aspettando Lui per premio nella società dei santi, uomini e dei santi Angeli "in modo che Dio sia tutto in tutti" (I Corinzi, XI, 28). Fondamento della Città di Dio è la fede in Dio Giustamente, dunque, la vera Religione riconosce e insegna che creatore di tutti gli animali, delle anime e dei corpi, è solo Colui che ha creato l’universo mondo. Tra gli animali il più nobile è l’uomo, formato ad immagine di Dio e fatto uno solo ma non lasciato solo per la ragione da me addotta, o forse anche per altra ragione da noi ignorata. Certo, niente è così inclinato per vizio alla discordia, né così socievole per natura, quanto il genere umano. Eppure la natura umana non potrebbe parlare contro il vizio della discordia più efficacemente (evitandolo ove non ci fosse e sanandolo ove già è venuto) che col ricordare il primo uomo, quel padre creato solo, affinché da lui solo si generasse la moltitudine a vivere in unità concorde. Dal suo costato è stata, poi, fatta la donna; e questo significa che deve essere assai amorevole l’unione del marito e della moglie. Le prime opere di Dio sono senza dubbio straordinarie; ma chi non le credesse, non dovrebbe prestar fede a nessun altro prodigio. E certo se esse si producessero nell’ordinario corso di natura, non sarebbero chiamate prodigi. Ma che cosa mai può prodursi indarno, anche se noi ne ignoriamo le ragioni, sotto un governo tanto sapiente della divina Provvidenza? Un sacro salmo dice: "Venite e osservate le opere del Signore e i prodigi da Lui fatti sopra la terra" (Salmo 45, 8). Dirò in altro luogo, con l’aiuto del Signore, perché la donna è stata fatta dal costato dell’uomo, e che cosa prefigurava questo quasi primo miracolo. Ora, dovendo essere terminato il presente libro, accenniamo che col primo uomo, non secondo le apparenze, ma nella prescienza divina, devono essere nate le due Città. Difatti, da lui deriveranno i discendenti dei quali alcuni sarebbero compagni dei cattivi angeli nella pena, ed altri degli Angeli buoni nel premio, secondo il giudizio di Dio, occulto ma sempre giusto. Ed essendo scritto: "Tutte le vie del Signore sono misericordia e verità" (Salmo 24, 10), non può essere ingiusta la sua grazia, né crudele la sua giustizia. Mescolate in questa vita, le due Città si separeranno nell’eternità Ma finalmente terminiamo questo libro. Abbiamo fin qui discusso ed abbastanza mostrato quale sia il corso quaggiù della Città celeste e della città terrena, permiste dal loro principio sino alla fine. Di esse, quella che è terrena si fece i suoi falsi dèi, ai quali tributare il suo culto, ricavandoli da vari elementi e anche dalle persone realmente vissute. Ma la Città celeste che è peregrina in terra, non fa i falsi dèi, ma essa stessa è creata dal vero Dio, di cui è vero sacrifizio. Tutte e due, pertanto, si valgono ugualmente dei beni temporali, ed ugualmente ne sono afflitte, ma con diversa fede, con diversa speranza e con diverso amore, finché nell’ultimo giudizio verranno separate, e ciascuna otterrà il proprio fine che non avrà mai fine. Appunto dei fini delle due Città discorreremo in seguito. La Città di Dio ha i suoi membri anche fra i suoi nemici Con queste ed altre simili ragioni, e più diffusamente e meglio che può, risponda ai suoi nemici la redenta Famiglia di Cristo Signore, la Città pellegrina di Cristo Re. Essa tenga bene in mente che tra gli stessi nemici stanno i futuri suoi cittadini; né stimi sia senza frutto che presso questi, finché non si possano distinguere i veri confessori della fede, stiano anche i molesti e contrari, come essa, fino a quando sarà in terra peregrina, avrà con sé di questi nemici, che sono coloro i quali, in parte ignorati, in parte conosciuti, vivono quaggiù insieme alla comunione dei Santi, ma non vivranno poi uniti nell’eterna terra dei Santi; e che, insieme con gli empi, non esitano di mormorare contro Dio, dei cui sacramenti ostentano rispetto; ed ora con gli infedeli riempiono i teatri, ora con noi si affollano nelle chiese. Della correzione di alcuni tra costoro non si può disperare, se è vero che presso i nemici più aperti stanno nascosti amici predestinati, già ignoti anche a sé stessi. È certo che le due Città, in questo mondo, non sono nettamente separate, e in ciascuna si mescola qualche porzione dell’altra, fino a quando esse verranno totalmente divise nel giudizio finale. Col divino aiuto, io tratterò, secondo il mio intento, delle origini, del corso e dei debiti confini delle due Città, per la gloria della Città di Dio, la quale, col confronto della città terrena, risalterà più luminosamente. Cristo, mediatore fra Dio e l’uomo, è il centro della storia Poiché l’uomo, finché è mortale, è anche misero, allora è da cercare un Mediatore che non sia soltanto uomo ma anche Dio, affinché, intervenendo, la beata mortalità di tal Mediatore elevi gli uomini dalla mortale miseria alla immortale beatitudine. E bisognava che Egli non disdegnasse di divenire mortale, e che non fosse rimasto mortale. E certamente Egli divenne mortale, non infirmando la divinità del Verbo, ma assumendo l’infermità della carne. Né, poi, rimase egli mortale nella stessa carne, che da Lui venne risuscitata dalla morte. Ed il frutto della sua Mediazione è appunto questo che non restassero nella perpetua morte della carne quelli stessi per la cui liberazione si fece Mediatore. Fu, dunque, conveniente che il Mediatore tra noi e Dio avesse una mortalità temporanea ed una beatitudine infinita, in modo che, somigliante ai morituri per quello che è transitorio, elevasse noi dalla morte a ciò che è durevole. [Non potevano essere mediatori gli Angeli buoni, perché sono essi immortali e beati; molto meno i demoni che hanno una immortalità miserrima]; ma era necessario un solo Mediatore, per la cui partecipazione diveniamo beati; e questo è il Verbo di Dio non fatto, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. E non è Mediatore in quanto è Verbo di Dio, essendo, come tale, beatissimo e immortale e infinitamente superiore ai miseri mortali; ma è Mediatore in quanto si fece uomo, mostrando con ciò che noi non dobbiamo cercare altri mediatori i quali gradatamente ci guidino al beato e beatifico Bene; giacché il beato e beatifico Dio, fattosi partecipe della nostra umanità, ci abbreviò il cammino per partecipare alla sua divinità. Né liberandoci Egli dalla mortalità e dalla miseria, guida noi agli immortali e beati Angeli, in modo che diveniamo immortali e beati partecipando della loro beatitudine; ma ci guida a quella Trinità con la cui partecipazione sono beati gli Angeli. E però quando, per essere Mediatore, volle, in forma di servo, stare in mezzo agli Angeli, rimase, in forma di Dio, sopra gli Angeli: via della vita, qui sulla terra, Egli stesso che in Cielo è la vita. Il sommo bene non si ottiene nella storia presente, ma nella vita futura Ma la particolare pace nostra, qui, è con Dio per fede e in eterno con Lui in beatifica visione. Nel vivere presente, tanto quella comune che quella nostra propria è tale ch’è sollievo della miseria piuttosto che gaudio di piena felicità. E la nostra stessa giustizia, quantunque sia vera per il vero fine del bene al quale si riferisce, pure essa è così scarsa in questa vita che vale più come perfezione delle virtù. Ne rende testimonianza la orazione della Città di Dio, pellegrina in terra, che per tutti i suoi membri grida a Dio: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi pure li rimettiamo a’ nostri debitori" (Matteo, 6, 12). E non è efficace questa preghiera per coloro la cui fede senza le opere è morta (Giacomo 2, 17, 26), ma per quelli i quali vivono di fede che opera con amore (Galati 5, 6). E poiché la ragione, sebbene suddita a Dio, non riesce (per la fragilità di noi mortali e per il corpo corruttibile che aggrava l’anima: Sapienza 9, 15) ad imperare con perfetta vittoria sui vizi, è necessaria ai giusti tale orazione. La ragione impera, senza dubbio, sui vizi, ma sempre con qualche combattimento. In questo luogo di infermità anche a quelli che combattono bene e signoreggiano su tali vinti nemici, entra in cuore se non apertamente certo insidiosamente, con fugace espressione e con alato pensiero, qualcosa che ecciterebbe al peccato. E in conseguenza, finché si deve imperare sui vizi, non v’è perfetta pace. In verità quei vizi che resistono vengono debellati con lotta pericolosa, e di quelli che sono vinti non si trionfa dormendo sugli allori, ma occorre premerli con assiduo dominio. A questo proposito nelle divine Scritture è detto: "Milizia è la vita dell’uomo sopra la terra" (Giobbe, 7, 1). E chi può presumere di vivere in tali tentazioni senza avere bisogno di dire a Dio: "Rimetti a noi i nostri debiti" se non il superbo? Non l’uomo grande ma l’uomo tronfio e superbo al quale resiste Colui che agli umili largisce la sua grazia. Per la qual cosa è scritto: "Dio resiste ai, superbi, dà la sua grazia agli umili" (Iacopo, 4, 6; I Pietro, 5, 5). In questo consiste la giustizia, che Dio abbia il dominio sull’uomo obbediente e l’anima sul corpo e la ragione sui vizi, o soggiogandoli o resistendo; e che a Dio domandiamo noi la grazia dei meriti e la remissione dei peccati, e a lui siamo gratissimi dei beni ricevuti. Ma nella pace finale comanderà per sempre Dio all’uomo e l’anima al corpo e vi sarà tanta agevolezza e soavità di obbedire, quanta felicità di vivere e di regnare. Tale felicità sarà in tutti e in ciascuno sicura ed eterna; e perciò la pace di questa beatitudine, ovvero la beatitudine di questa pace, sarà il sommo bene. La Provvidenza e la riparazione del peccato nella Storia umana Anzitutto è per la divina Provvidenza – la quale, com’è buona, è anche pia e giusta – che si muove il mondo e l’uomo: dato che l’uomo, il quale per la instabilità naturale e la libertà sfrenata è infimo e contumace, com’è necessario che l’indigente di mezzi sia governato, così è giusto che sia corretto chi si dà alla libertà sfrenata, e così giustamente fin dall’inizio dell’umanità questo mondo è provato dall’avvicendarsi di beni e di mali, ciò è noto a chiunque per sé e in sé vede 1’uman genere. Poi, essendo stati noi istruiti che il peccato e la pena del peccato hanno avuto inizio fin dal primo uomo; del resto, poiché anche coloro che cominciano a scrivere quando le epoche son per metà trascorse, non hanno descritto se non guerre e calamità e devastazioni (e le guerre che altro si devon dire se non cause di mali per ambedue le parti?); i mali siffatti ch’erano allora come anche quelli che ora in quanto sono, senza dubbio, o sono peccati manifesti o occulto punizioni dei peccati, nulla impedisce che noi mettiamo in evidenza il capo di ciò di cui essi hanno espresso il corpo: e quei primi secoli, che mostreremo essere assai più numerosi, testimoniare per informazione la più lieve di aver sopportato simili miserie.

Tutti i brani di Agostino sono tratti da C. Fabro, La storiografia nel pensiero cristiano, in Grande antologia filosofica, vol. V, Marzorati, Milano 1973, pp. 311-503

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