![]() |
Un filosofo peripatetico, Aristocle, vissuto nel II secolo d.C., ripropone una confutazione dello scetticismo che ricalca quella aristotelica, contenuta nel IV libro della Metafisica. Ecco il resoconto che ne dà Eusebio di Cesarea.
Allievo di Senofane fu Parmenide, di Parmenide fu Melisso, di Melisso Zenone, di Zenone Leucippo, di Leucippo Democrito, e allievi di Democrito furono Protagora e Nessa. Di quest'ultimo fu allievo Metrodoro, e di Metrodoro Diogene, e di Diogene Anassarco; ma di Anassarco fu familiare Pirrone, da cui venne fondata la setta cosiddetta degli "Scettici". Che questi ultimi sostenessero non esserci assolutamente nulla che possa essere compreso né per mezzo del senso né per mezzo della ragione, e che, perciò, essi sospendessero il giudizio in merito a tutte le cose e come costoro venissero confutati dai loro avversari, sono tutte cose che si possono apprendere dall'opera di Aristocle sopra ricordata. In essa si trova scritto letteralmente quanto segue.
E’ indispensabile che noi conduciamo anzitutto l'indagine sulla nostra conoscenza. Se, infatti, non abbiamo avuto dalla natura i requisiti per conoscere cosa alcuna, siamo necessariamente costretti a tralasciare qualsiasi altra indagine. Ci furono, pertanto, alcuni filosofi antichi che, a tale riguardo, si pronunciarono in senso negativo e che furono, poi, redarguiti da Aristotele. Però strenuo sostenitore di siffatte teorie fu anche Pirrone di Elide. Costui non ha lasciato nulla per iscritto, ma il suo discepolo Timone afferma che chi aspira alla felicità deve tendere a queste tre cose: in primo luogo a rendersi conto della natura delle cose, in secondo luogo ad assumere un adeguato comportamento nei confronti di queste e, infine, a capire cosa accadrà a quelli che così abbiano agito.
Aristocle osserva che, per quanto concerne le cose, Timone le dichiarava tutte quante ugualmente indifferenti, instabili e non giudicabili e aggiungeva, perciò, che né i nostri sensi né le nostre opinioni sono nel vero o nel falso. Per questo motivo, allora, non si deve prestar fede né ai sensi né alle opinioni, ma dobbiamo essere privi-di-opinione, non essere inclini a nessuna soluzione e non lasciarci scuotere da nulla, ma dobbiamo dire, a proposito di ogni cosa particolare, che essa esiste "non più" che non esista, oppure che essa "è-e-non-è" e non semplicemente che essa non è. E Timone sostiene che a quanti si trovano in questa disposizione d'animo consegue anzitutto l'"afasia" e, in secondo luogo, l'imperturbabilità, alla quale Enesidemo aggiunge anche il piacere. Ecco in linea di massima le affermazioni di Timone.
Ma mettiamoci ad indagare se esse sono corrette. Orbene, quando gli Scettici sostengono che tutte quante le cose sono ugualmente indifferenti, e per questo motivo essi esortano a non dare la propria adesione a nulla e a non formulare opinione alcuna, si potrebbe giustamente, a mio avviso, volgere loro questa domanda: "Forse che sbagliano, allora, quanti credono che queste cose siano differenti tra loro, o no? Se sbagliano, essi, comunque sia, non pensano in modo corretto. Ne consegue necessariamente, però, che anche gli Scettici dicono che ci sono alcuni i quali formulano opinioni false intorno alle cose esistenti. Essi stessi, pertanto, verrebbero ad essere gli unici depositari della verità: ma, allora, si viene a concludere che un qualcosa di vero o di falso pur esiste. Se, invece, a cadere in errore non siamo noi - ossia "i più" - quando pensiamo che le cose differiscano tra loro, che cosa mai gli Scettici hanno scoperto per dare fastidio a noi? In tal caso proprio essi cadrebbero in errore col sopprimere ogni differenza tra le cose.
Ebbene:concediamo pure che tra tutte quante le cose non sussista assolutamente alcuna differenza: in questo caso, allora, anche gli Scettici non differiranno affatto dai "più". Ma di che cosa, adunque, verrà a consistere la loro "sapienza"? E perché mai Timone si mette a ingiuriare tutti quanti gli altri pensatori ed a levare inni al solo Pirrone? Oltre a ciò, se tutte le cose sono ugualmente indifferenti e se, per questo motivo, non bisogna formulare opinione alcuna, non verrà ad esserci alcuna differenza tra queste medesime cose, vale a dire tra il differire e il non-differire, tra l'opinare e il non-opinare. Per qual motivo, infatti, anche queste cose dovrebbero essere piuttosto che non-essere? Ovvero, per usare un’espressione consueta a Timone, "perché sì e perché no? Anzi perché lo stesso perché?".
Da tutto ciò viene manifestamente soppressa ogni indagine.
La smettano, allora, gli Scettici di darci fastidio! Infatti essi sono ovviamente impazziti, perché - ormai immemori della loro "arte" - ci inibiscono di formulare alcuna opinione e, nello stesso tempo, ci esortano a formularla, e ci dicono che non si deve fare enunciazione su cosa veruna e, subito dopo, essi stessi si mettono ad enunciare. E da una parte essi reputano che non si debba dare l'assenso a niente, dall'altra ci impongono di prestar fede a loro; e poi, mentre essi van dicendo di non saper nulla, si mettono a confutare tutti, quasi che essi soli sapessero bene ogni cosa.
Inoltre, quanti vanno affermando che tutte le cose sono non-evidenti, devono necessariamente fare una delle due cose seguenti: o tacere oppure fare un'enunciazione, tanto per parlare. Se, pertanto, essi se ne stanno zitti, è ovvio che con gente siffatta non ci potrà essere alcun colloquio; se, invece, fanno un'enunciazione, in ogni caso e ad ogni modo essi diranno che un qualcosa o è o non-è, proprio come, del resto, essi dicono ora che tutte le cose sono inconoscibili e opinabili per tutti e che nulla affatto è noto. Orbene: chi fa una certa assunzione, o la rende- manifesta e offre la possibilità che essa venga capita nel momento in cui egli la va enunciando, oppure ciò non è possibile. Ma se egli non la rende manifesta, ancora una volta con un siffatto individuo non sarà possibile assolutamente alcun discorso. Se, invece, egli dà una qualche spiegazione, allora, in ogni caso, o farà un'infinità di affermazioni oppure ne farà un numero limitato. E se egli ne farà un'infinità, ancora una volta non sarà affatto possibile colloquiare con costui, giacché dell'infinito non c'è conoscenza. Se, invece, le sue spiegazioni sono di numero finito o se egli ne dà solamente una qualsiasi, in questo caso chi parla così viene a formulare una certa definizione e a dare un certo giudizio. Come mai si potrà dire, allora, che tutte le cose sono "non-conoscibili e non-giudicabili"? Se, poi, egli verrà a dire che tutte le cose "sono-e-non sono", allora, in primo luogo, la medesima cosa risulterà essere vera-e-falsa e, in secondo luogo, egli farà un'affermazione e non la farà e nell'atto stesso in cui farà uso di un discorso lo verrà a sopprimere”.
Da A. Russo (a cura di), Scettici Antichi, UTET, Torino 1979, pp. 100-103