Marsilio da Padova
Il fine della politica e la legge

Secondo Aristotele, Politica, libro I, capitolo 1, la città è " la comunità perfetta che ha raggiunto il pieno limite di autosufficienza, che è fatta per rendere possibile la vita, e sussiste per la necessità di vivere bene". Questa frase di Aristotele - " che è fatta per rendere possibile la vita, ma sussiste per la necessità di viver bene " - indica appunto la causa finale perfetta della città, poiché coloro che vivono una vita civile non solo vivono - come fanno anche le bestie o gli schiavi - ma vivono bene, ossia hanno agio di svolgere quelle funzioni liberali in cui si esercitano le virtù sia dell'anima teoretica che di quella pratica.
Dopo aver così determinato il fine della città, che è il vivere e il ben vivere, dobbiamo ora parlare in primo luogo del vivere e dei suoi modi. Poiché questo è appunto come abbiamo detto - lo scopo per cui viene istituita la città ed è la necessità di quanto esiste nella città o che vi è prodotto dall'associazione degli uomini. E noi poniamo come principio di tutto quanto dobbiamo dimostrare - e come un principio sostenuto, creduto e liberamente concesso da tutti - che tutti gli uomini non deformati o impediti per altre ragioni desiderano naturalmente la vita sufficiente, ed evitano e sfuggono quanto le è dannoso. Ciò è stato del resto già riconosciuto e non solo per quanto concerne l'uomo, ma anche ogni genere di animali, secondo quanto attesta Tullio nel De officiis, libro 1, capitolo III: "Una qualità originaria che la natura ha attribuito ad ogni genere di cose viventi, è quella di conservare sé stessi, il proprio corpo e la propria vita, e di sfuggire ciò che sembra dannoso, e di acquistare e procacciarsi tutte le cose necessarie alla vita. Questo principio può essere chiaramente compreso da chiunque, per induzione sensibile.
Ma il vivere e il ben vivere conviene agli uomini in due diversi modi, l'uno dei quali è temporale o terreno, mentre l'altro vien detto di solito eterno o celeste. Tuttavia, l'intero genere dei filosofi non é stato capace di provare per via dimostrativa questo secondo modo di vivere, ossia l'eterno, né questo era un principio evidente di per sé stesso; e quindi i filosofi non si occuparono dei mezzi necessari per raggiungerlo. Ma i famosi filosofi hanno invece inteso quasi completamente, per via di dimostrazione, quel primo modo di vivere e di viver bene che abbiamo detto terreno ed anche i suoi mezzi necessari. E conclusero che, per raggiungerlo, è necessaria la comunità civile senza la quale non potrebbe esser mai raggiunta la vita sufficiente. Cosi il più illustre dei filosofi, Aristotele, dice nella sua Politica, libro I, capitolo I: "Tutti gli uomini sono spinti ad una tale associazione da un impulso naturale". Ma benché ce lo insegni la stessa esperienza sensibile, desideriamo metterne in luce più distintamente la causa, dicendo che l'uomo è nato composto di elementi contrari, e che appunto a causa di queste azioni e passioni contrarie qualcosa della sua sostanza viene continuamente distrutto; e inoltre che è nato " nudo e indifeso " dagli eccessi dell'aria e degli altri elementi che lo circondano, come è ben detto nella scienza naturale. Di conseguenza l'uomo ebbe bisogno di dividersi generi e specie di arti per evitare tare quei danni che abbiamo già ricordato. Ma siccome queste arti possono essere esercitate solo da un gran numero di uomini e le si possono ottenere solo per mezzo della loro reciproca associazione, gli individui singoli dovettero associarsi insieme per ottenere con queste arti ciò che era vantaggioso ed evitare quanto era dannoso.

Marsilio da Padova, Il difensore della pace, I, c. IV, 1-3, UTET, Torino 1975

Se però la legge umana avesse proibito agli eretici o qualunque altro infedele di restare in quella regione, chi di loro vi fosse scoperto deve essere punito come trasgressore di una legge umana, con quella pena o punizione che è stabilita dalla legge stessa e da quel giudice che noi, nel capitolo XV del I discorso, abbiamo già mostrato esser il custode della legge umana, in virtù dell'autorità concessagli dal legislatore. Ma se la legge umana non vieta che l'eretico o qualunque infedele conviva nella stessa regione insieme ai fedeli - così com'è ormai permesso dalle leggi umane agli eretici ed agli ebrei, anche in questi tempi di popoli, governanti e pontefici cristiani - io dico che non spetta ad alcuno di giudicare e punire l'eretico o l'infedele con una pena o punizione nella persona o nella proprietà, nello stato della vita presente. E la causa generale di ciò è la seguente: nessun uomo che pecchi contro qualsiasi disciplina teoretica o pratica può esser punito, in quanto tale, in questo mondo, bensì solo in quanto pecca contro il comando della legge umana . Se la legge non proibisse di ubriacarsi, di fabbricare o vendere scarpe nel modo che più piace a ciascuno, o di praticare la medicina o insegnare o esercitare a proprio piacere altri uffici simili, non si potrebbe neppure punire chi si ubriacasse o chiunque agisse ingiustamente in qualsiasi occupazione.
Si deve perciò notare che in ogni giudizio coattivo di questo mondo, prima di rilasciare una sentenza di condanna o di assoluzione, occorre indagare prima ordinatamente molte questioni pertinenti. In primo luogo, se le parole o l'atto di cui è accusato l'imputato siano veramente tali come è stato detto. E questo è appunto conoscere la natura di ciò che si dice sia stato commesso. In secondo luogo, se un tale atto sia o no proibito dalla legge umana. E, in terzo luogo, se l'accusato abbia commesso o no il fatto. Solo dopo che sono state indagate queste questioni, può seguire il giudizio o sentenza di condanna o di assoluzione dell'imputato. Ad esempio, se uno è stato accusato di eresia o di falsificare degli oggetti d'oro o di qualche altro metallo, prima di con-dannarlo o di assolverlo, bisognerà indagare se le afferma-zioni o il fatto che gli viene imputato è o non è eretico. Di poi, se dire, fare o insegnare simili cose sia proibito dalla legge umana; e, infine, se quella colpa sia stata o no com-messa dall'imputato. E finalmente dopo l'indagine di queste questioni potrà seguire il giudizio di assoluzione o di condanna.
Riguardo alla prima di queste questioni, la verità dev'essere accertata dal governante per mezzo degli esperti di ciascuna disciplina, i quali debbono considerare l'essenza o natura dell'affermazione o del fatto di cui l'imputato è accusato; poiché questi esperti che sono giudici nel primo significato, sono tenuti a conoscere la natura di queste cose, e il governante ha dato loro l'autorità, che nelle discipline liberali viene chiamata " licenza ", di insegnare o praticare queste arti nello Stato. E questa procedura è analoga a quella di tutte le altre arti produttive o meccaniche, come abbiamo mostrato nel capitolo XV del I discorso. Così il medico deve comprendere dalla condizione del corpo quali sono i lebbrosi e quali no; così il sacerdote deve sapere quali affermazioni o dottrine sono eretiche e quali cattoliche; così l'orefice o l'argentiere, quali sono i metalli veri o falsi; e così ugualmente l'esperto della legge o giurista deve sapere che sono i mutui, i depositi ed altri simili atti civili. Perché il governante, in quanto tale, non è tenuto invece a conoscere simili materie, ma secondo la legge, se questa è veramente perfetta, deve rendersi conto della natura delle parole, degli atti e delle diverse azioni per mezzo di coloro che praticano o insegnano le varie discipline.
Ed ora, tornando così alla materia della nostra discussione, dico che ogni dottore della Divina Scrittura come è o deve essere ogni sacerdote, può e deve giudicare, ma con un giudizio inteso nel primo senso, se la colpa imputata ad un uomo sia o no un'eresia. Onde leggiamo in Malachia, capitolo II: " Poiché le labbra del sacerdote custodiscono la scienza, ed essi chiederanno la legge", cioè la legge divina, "alla sua bocca". E tali debbono essere appunto i preti o vescovi, successori degli Apostoli, ai quali Cristo disse, in Matteo, capitolo XXVIII: "Andate dunque, ammaestrate tutte le genti... insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato ". E nella I Epistola a Timoteo, capitolo III: "Egli deve" tra le altre cose "essere un maestro" della legge sacra. Ed ancora nella Epistola a Tito, capitolo I: "Il vescovo... deve abbracciare quella parola fedele, secondo la dottrina; affinché sia capace di esortare nella santa dottrina e convincere i contraddittori. Poiché vi sono molti seduttori di menti... ai quali bisogna chiuder la bocca" . Rispetto poi alla seconda questione, occorre che il magistrato sappia se un atto è o no proibito dalla legge accertandolo dalla legge stessa, intesa nel suo ultimo e più proprio significato, secondo la quale egli deve governare per l'autorità del legislatore. E, in terzo luogo, si deve poi conoscere se l'accusato abbia veramente compiuto quell'atto o pronunziato quella parola eretica che gli è imputata; e questo giudizio può esser compiuto mediante i loro sensi esterni o interni, da quegli uomini dotti o indotti che sono chiamati di solito " testimoni " . Solo dopo aver compiuto questi accertamenti, il magistrato deve pronunziare il giudizio o sentenza di condanna o di assoluzione e, quindi, l'esecuzione o la remissione della pena o punizione nei confronti di chi era stato accusato di eresia.
Tuttavia, nessuno potrà mai essere punito dal magistrato solo perché pecca contro la legge divina. Vi sono infatti molti peccati mortali contro la legge divina, come la fornicazione, che il legislatore umano permette anche se ne viene a cognizione e che il vescovo o prete non può né deve punire per mezzo del potere coattivo. Ma se il peccato dell'eretico contro la legge divina è tale da esser proibito anche dalla legge umana, allora viene punito anche in questo mondo in quanto viola la legge umana. Questa è infatti la causa essenziale precisa o primaria per cui una persona viene colpita nella vita presente, con pene e punizioni. E solo se è data tale causa si verifica anche questo effetto, mentre, se viene rimossa, viene pure rimosso anche l'effetto. E viceversa, chi pecchi contro la legge umana con qualche delitto, non potrà esser punito per questa ragione anche nell'altro mondo, bensì solo in quanto ha peccato contro la legge divina e non in quanto ha peccato contro la legge umana.
Vi sono infatti molti atti proibiti dalla legge umana che sono permessi dalla legge divina; ad esempio chi non abbia restituito un prestito contratto a tempo debito, per impossibilità dovuta a un caso fortuito, a malattia, a dimenticanza, o altri casi simili, non sarà certo punito per questo nell'altra vita dal giudice coattivo della legge divina, mentre sarà punito giustamente in questo mondo dal giudice coattivo della legge umana. Chiunque invece avrà peccato contro la legge divina, con un atto permesso dalla legge umana, come la fornicazione, sarà punito nell'altro mondo; e quindi il peccato contro la legge divina è appunto quella prima causa essenziale, che in filosofia viene chiamata di solito causa " in quanto tale" (secundum qua) perché se si verifica si dà anche l'effetto della pena o punizione per lo stato e nello stato della vita futura mentre se viene rimossa, anche questo effetto non ha più luogo.

Marsilio da Padova, Il difensore della pace, II, c. X, 3-7, UTET, Torino 1975

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