Platone
La giustizia nella polis e nell’anima

Ebbene, ripresi, ascolta se ho ragione. Secondo me, la giustizia consiste in quel principio che fin dall’inizio, quando fondavamo lo stato, ponemmo di dover rispettare costantemente: in esso, o in qualche suo. particolare aspetto. Ora, se rammenti, abbiamo posto e più volte ripetuto che ciascun individuo deve attendere a una. sola attività nell’organismo statale, quella per cui la natura l’abbia meglio dotato. - Sì, l’abbiamo ripetuto. - E d’altra parte dicevamo che la giustizia consiste nell’esplicare i propri compiti senza attendere a troppe faccende: è un discorso che abbiamo udito da molti altri e noi stessi spesso ripetuto. - L’abbiamo ripetuto, sì. - Questo dunque, mio caro, continuai, se realizzato in un determinato modo, può darsi che sia la giustizia: esplicare i propri compiti. Sai da che cosa lo congetturo? - No, ma dillo, rispose. - Dopo aver esaminato, feci io, la temperanza, il coraggio e l’intelligenza, mi sembra che quanto rimane nello stato sia quella dote che a tutte le altre ha dato la forza di nascervi e, quando sono nate, permette loro di conservarsi, finché viva in esse. Ora, dicevamo che, se avessimo trovato le altre tre, la residua sarebbe stata la giustizia. - Per forza, sì, rispose. - Però, ripresi io, se bisognasse veramente giudicare quale di esse più contribuirà con la sua presenza a renderci buono lo stato, sarebbe difficile giudicare se si tratti della concordanza di opinione tra governanti e governati, o del fatto che i soldati contraggano e conservino l’opinione legittima di quali sono e quali no le cose da temere, oppure dell’intelligenza e vigilanza insite nei governanti; o se a renderlo buono sia soprattutto questa virtù presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano, nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo esplica il proprio compito senza attendere a troppe cose. - E’ un giudizio difficile, rispose; come no? - Per la virtù dello stato gareggia dunque, sembra, con la sapienza, con la temperanza e con il coraggio anche quest’altra forza, di far esplicare a ciascuno il proprio compito entro lo stato. - Certo, rispose. - E la dote che gareggia con queste per la virtù dello stato non la potresti considerare giustizia? - Assolutamente. - Esamina ora anche da quest’altro punto di vista se ti confermerai nel tuo parere: i processi non li farai giudicare a chi detiene il governo dello stato? - Sicuramente. - E, giudicando, i governanti mireranno forse ad altro fine più che a come evitare che ogni individuo possa avere l’altrui ed essere privato del proprio? - No, ma mireranno a questo. - Perché è giusto? - Sì. - Anche in questo modo allora si potrebbe riconoscere come giustizia il possesso di ciò che è proprio e l’esplicazione del proprio compito. - E’ così. - Vedi ora se la pensi come me. Se un falegname intraprende il mestiere del calzolaio o un calzolaio quello del falegname, o se si scambiano gli strumenti o gli uffici, o anche se la stessa persona intraprende entrambi i mestieri, tutto questo scambio di mestieri potrà portare, secondo te, un grave danno allo stato? - No, affatto, rispose. - Quando però, credo, uno che per natura è artigiano o un altro che per natura è uomo d’affari e che poi si eleva per ricchezza o per numero di seguaci per vigore o per qualche altro simile motivo, tenta di assumere l’aspetto del guerriero; o un guerriero quello di consigliere e guardiano, anche se non ne ha i requisiti; e costoro si scambiano gli strumenti e gli uffici; o quando la stessa persona intraprende tutte queste cose insieme, allora, io credo, anche tu penserai che questo loro scambiarsi di posto e questo attendere a troppe cose sia una rovina per lo stato. - Assolutamente. - Allora, l’attendere a troppe cose e lo scambiarsi di posto delle tre classi sociali sono un danno assai grave per lo stato e si potrebbero con piena ragione denominare un enorme misfatto. - Precisamente. - E non ammetterai che il maggiore misfatto verso il proprio stato è l’ingiustizia? - Come no?
Ecco dunque che cosa è l’ingiustizia. E viceversa possiamo dire così: se le classi degli uomini d’affari, degli ausiliari, dei guardiani si occupano soltanto della propria attività, quando ciascuna di esse esplica il compito suo entro lo stato, questo fatto, contrariamente al caso di prima, non sarà la giustizia e non renderà giusto lo stato? - Mi sembra, rispose, che non possa essere altrimenti. - Non affermiamolo ancora troppo recisamente, feci io. Se però, riportando questa dote anche a ciascun individuo, riconosceremo che pure nel singolo essa è la giustizia, saremo già d’accordo. Che obiezioni potremo ancora fare? In caso contrario, cercheremo altrove. Ora però terminiamo l’esame che abbiamo pensato di fare: cioè che, se avessimo cercato la giustizia prima in un ambito più largo, ci sarebbe stato più facile vedere che cosa essa è in un individuo. A noi è sembrato che questo ambito più largo fosse quello dello stato, e così abbiamo fondato uno stato, il più perfetto possibile, ben sapendo che in uno stato buono si sarebbe trovata la giustizia. E dunque riportiamo all’individuo i risultati di quella nostra indagine e, se si perverrà a un’analoga constatazione, andrà benissimo; se invece nell’individuo si manifesterà qualche diversità, torneremo di nuovo allo stato e li sottoporremo a prove: e forse, confrontandoli e strofinandoli, come da pietre focaie ne potremmo far brillare la giustizia e, manifesta che sia, consolidarla in noi. Bene, rispose, parli con metodo, e bisogna fare così. Ora, ripresi, una cosa che sia detta ‘l’identica’ di un’altra, anche se sono una maggiore e una minore, è forse dissimile dalla seconda in ciò per cui la si dice identica, o le è simile? - Simile, disse. - Allora un uomo giusto non differirà per niente da uno stato giusto per ciò che riguarda l’aspetto della giustizia in se stesso, ma gli sarà simile. - Simile, rispose. - D’altra parte uno stato ci è sembrato giusto quando le tre classi di nature in esso esistenti esplicavano ciascuna il compito suo; e inoltre temperante, coraggioso e sapiente per certe altre condizioni e disposizioni di queste medesime classi. - E’ vero, disse. - Allora, mio caro, giudicheremo così anche per l’individuo: poiché l’anima sua presenta questi medesimi aspetti ed egli sì trova nelle stesse condizioni di quelle classi, merita a ragione i medesimi appellativi che lo stato. - Per forza, rispose. - Eccoci ricondotti, feci io, mio ammirevole amico, al facile problema se l’anima abbia o no in sé questi tre aspetti. - Non mi sembra affatto un problema facile, rispose; perché, Socrate è forse vero il detto "le cose belle sono difficili". E’ evidente, risposi. E sappi, Glaucone, che, a mio parere, con quei metodi che usiamo attualmente nelle discussioni non riusciremo mai a toccare bene la nostra mèta. Altra è la strada che vi conduce, più lunga e più estesa. Forse però la raggiungeremo in maniera degna dei discorsi e delle ricerche precedenti. - E non è desiderabile?, fece. Per il momento mi contenterei. - Per me poi, dissi, sarà più che sufficiente. - E quindi non stancarti, riprese, e fa il tuo esame. - Ora, dissi, non siamo necessariamente costretti a riconoscere che entro ciascuno di noi esistono i medesimi aspetti e caratteri che esistono nello stato? Perché nello stato essi non sono venuti che dall’individuo. Sarebbe ridicolo se si credesse che l’elemento animoso sia ingenerato negli stati senza nascere dai privati che godono questa fama, come gli abitanti della Tracia, della Scizia e in genere delle regioni settentrionali: e così si dica della passione di apprendere che si potrebbe attribuire particolarmente al nostro paese; per quanto riguarda l’amore al denaro, si potrebbe poi dire che lo si riscontra fortissimo presso i Fenici e gli Egizi. - Certamente, rispose. - Dunque, dissi, su questo punto così stanno le cose e non v’è alcuna difficoltà a rendersene conto. - No davvero.

Platone, Repubblica, IV, 433a – 436a, in Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1980

apri questo documento in Word