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Mai dunque, in nessun tempo, tu sei rimasto senza fare nulla, perché il tempo stesso sei tu che l'hai fatto. E non c'è periodo di tempo che possa dirsi a te coevo, perché tu permani: ma un tempo permanente non sarebbe tempo. Già, che cos'è il tempo? Chi ce ne darà una definizione breve e facile? Chi riuscirà ad afferrarne almeno col pensiero tanto da poterne parlare? Eppure, che cosa c'è che noi, quando parliamo, diamo per tanto scontato e familiare quanto il tempo? E senza dubbio capiamo quello che diciamo, capiamo anche quando ne sentiamo parlare da un altro. Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente. Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorre nel passato, in che senso diciamo che esiste anch'esso? Se appunto la sua sola ragion d'essere è che non esisterà: in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c'è solo in quanto tende a non essere.
E tuttavia noi lo diciamo lungo o breve, il tempo, ben che così chiamiamo solo il passato o il futuro. Ad esempio cent'anni passati fino a oggi fanno un passato che chiamiamo lungo, e lo stesso vale per un futuro di cent'anni a partire da oggi; invece dieci giorni - poniamo - precedenti o successivi fanno un passato e un futuro che diciamo brevi. Ma come fa a esser lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più e il futuro non è ancora. Del passato dunque non dovremmo dire "è lungo", ma "è stato lungo", e del futuro "sarà lungo". Mio Signore, mia luce, forse anche qui la tua verità si fa beffe dell'uomo. Questo passato che è stato lungo, lo è stato una volta che era già passato o quando era ancora presente? In effetti per essere lungo doveva essere: dunque poteva esserlo solo finché c'era. Ma il passato non era più e non essendo affatto non poteva nemmeno essere lungo. Perciò non dovremmo dire neppure, del passato, "è stato lungo" - infatti non troveremo mai che cosa sarebbe stato lungo, proprio perché non è, dal momento che è passato - ma dovremmo dire, piuttosto: "E stato lungo quel tempo presente", perché era lungo mentre era presente. Finché non era ancora passato e non aveva ancora cessato di essere, era appunto qualcosa, e quindi, eventualmente, anche lungo; ma una volta che fu passato, smise anche d'essere lungo, nel momento stesso in cui smise d'essere affatto.
Vediamo allora se il presente possa essere lungo, anima umana: perché a te è dato sentire e misurare la durata. Che cosa mi rispondi? Dimmi: è lungo un presente che dura cent'anni? Ma vedi prima se cento anni possano essere presenti. Dunque: se è in corso il primo di essi, è questo che è presente, gli altri novantanove son futuri e quindi non ci sono ancora; ma se è in corso il secondo, un anno è già passato, l'altro presente, i restanti futuri. E così, qualunque sia fra questi cento l'anno che supporremo presente: quelli che lo precedono nell'ordine saranno passati, quelli che lo seguono futuri. Perciò cento anni non possono essere presenti. Vedi se possa almeno esser presente l'anno che è in corso. Ora se corre, di questo, il primo mese, tutti gli altri sono futuri, se il secondo, il primo è già passato e gli altri non ci sono ancora. Dunque neppure l'anno in corso è tutto presente, e se non è tutto presente, non è l'anno che è presente. Perché un anno è fatto di dodici mesi, e di questi è presente soltanto quello in corso, quale che sia, gli altri sono passati o futuri. Benché neppure il mese che è in corso sia presente, in effetti: solo un giorno lo è, se è il primo, sono futuri tutti gli altri, se l'ultimo, sono tutti passati, e uno qualunque degli intermedi sta fra i mesi passati e quelli futuri.
Eccolo qui il presente, il solo tempo che avevamo trovato possibile chiamare lungo, ridotto appena allo spazio di un giorno. Ma esaminiamo anche questo, perché neppure un giorno è mai tutto presente. Delle ventiquattr'ore che, fra notte e giorno, lo costituiscono, la prima ha tutte le altre a venire, l'ultima le ha tutte alle spalle, e ciascuna delle intermedie ne ha di precedenti, passate, e di successive, future. E ciascuna singola ora è una fuga di minute particelle: quante han già preso il volo son passate, e futuro è quel che resta. Se è concepibile una frazione di tempo che non si possa più dividere ulteriormente in parti, per piccole che siano, questa soltanto può dirsi presente: ma anche questa balza così rapida dal futuro al passato, che non ha la più piccola durata. Perché se ne avesse, si dividerebbe in passato e futuro: ma il presente non ha alcuna estensione. Dov'è insomma un tempo che possiamo chiamare lungo? Forse il futuro? Non diciamo certamente che è lungo-, perché ancora non è, ciò che deve esser lungo: diciamo piuttosto "sarà lungo". Quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, perché non sarà ancora niente del tutto. Forse sarà lungo allora, quando dal futuro che ancora non esiste avrà preso a essere e si sarà fatto presente ( così da poter esser anche eventualmente lungo) ? Ma se risuona ancora nelle parole appena dette la voce del presente stesso, che nega di poter durare a lungo.
E tuttavia, Signore, noi percepiamo gli intervalli di tempo, e li confrontiamo e li diciamo più lunghi o più brevi. E misuriamo anche quanto più lungo o più breve un tempo sia di un altro, e calcoliamo che sia doppio o triplo, o che l'uno sia pari all'altro. Ma noi misuriamo il tempo che passa, quando lo misuriamo a orecchio. I tempi passati invece, che non sono più, o quelli futuri, che non sono ancora, chi può misurarli: a meno che uno non abbia coraggio di asserire che si può misurare ciò che non esiste. E insomma al suo passare che il tempo può esser sentito e misurat071; una volta passato non può, perché non esiste.
lo chiedo, padre, non affermo: assistimi mio Dio, guidami tu. Chi mai si sognerebbe di venirmi a dire che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e ai bambini abbiamo insegnato: passato, presente e futuro -ma c'è solo il presente, perché gli altri due non esistono! O forse sì, ci sono, ma come nascondigli da cui il presente appare uscendo dal futuro, e in cui scompare quando si fa passato? E dove l'hanno visto altrimenti quelli che hanno annunciato il futuro, se non esiste ancora? Certo non si può vedere ciò che non esiste. E quelli che raccontano il passato non potrebbero mai darlo per vero, se non l'avessero ben distinto davanti agli occhi della mente: e se non esistesse affatto, non potrebbe esser visto, fin alcun modo. Esistono dunque, passato e futuro.
Concedi mio Signore, speranza mia, che io cerchi ancora: fa che la mia intenzione non ne resti smarrita. Se passato e futuro esistono, io vorrei sapere dove sono. E se non arrivo a tanto, so almeno che, dovunque siano, là non sono futuro o passato, ma presente. Perché se anche là fossero futuro o passato, non ci sarebbero ancora o non ci sarebbero più. Perciò dovunque e comunque siano, non esistono che come presente. Quando si raccontano cose vere e passate, in effetti, non sono le cose stesse che son passate a esser cavate dalla memoria, ma solo le parole concepite dalle loro immagini, che si sono fissate nella mente come delle tracce, dopo esser passate per i sensi. E la mia infanzia, che non è più, è nel passato, che non è più: ma nel rievocarla e narrarla è nel presente che io vedo la sua immagine, ancora viva nella mia memoria. Se anche le predizioni del futuro abbiano una ragione analoga, se sia cioè possibile percepire in anticipo immagini esistenti delle cose che non ci sono ancora, Dio mio, confesso: questo non lo so. Questo so invece, che di solito noi premeditiamo le nostre azioni future, e mentre questa anticipazione mentale dell'azione è presente non lo è ancora l'azione stessa, che è futura: solo quando l'avremo intrapresa e avremo cominciato a fare ciò che avevamo in mente esisterà l'azione -cioè sarà presente, non futura".
Comunque stiano le cose riguardo ai misteriosi presentimenti del futuro, è certo che ciò che non esiste neppure può esser visto. Ma ciò che esiste già non è futuro, è presente. Perciò chi afferma di vedere il futuro non vede le cose stesse che ancora non sono, appunto perché sono a venire, ma le loro cause o forse i loro segni, che esistono già: che quindi non sono future ma presenti a chi le vede, e può così predirne le future conseguenze, come le concepisce la sua mente. Concezioni che esistono, esse pure; e chi fa predizioni le vede dentro se stesso. Un esempio fra gli innumerevoli che mi dicono questo: l'aurora. La vedo e preannuncio il prossimo sorgere del sole. Quello che vedo è presente, quello che predico futuro: non il sole, che già esiste, è futuro, ma la sua levata, che non è ancora avvenuta. E d'altra parte non potrei predire nemmeno che il sole sorgerà se non avessi in mente un'immagine di questo evento, come ora che ne sto parlando. Eppure né l'aurora che io vedo in cielo è il sorgere del sole, sebbene lo preceda, né lo è la sua immagine nella mia mente: bisogna che siano visibili o presenti tutt'e due perché quell'evento futuro sia previsto. In conclusione il futuro non c'è ancora, e se non c'è ancora non c'è affatto, e se non c'è non si può proprio vedere: ma si può predire sulla base del presente, che già c'è e si vede.
E tu che regni sopra il tuo creato, come insegni alle anime il futuro? Perché tu l'hai insegnato, ai tuoi profeti. Che modo sarà mai di insegnare il futuro il tuo, se per te nulla è futuro? O non insegni piuttosto le tracce presenti del futuro? Perché ciò che non è neppure può essere insegnato. Troppo lontano dalla mia vista è questo tuo modo, troppo elevato, non lo potrò raggiungere da solo; ma col tuo aiuto sì, potrò, quando me lo concederai, dolce lume dei miei bui occhi.
Almeno questo ora è limpido e chiaro: né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sarebbe forse dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Sì, questi tre sono in un certo senso nell'anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente la percezione, di ciò che è futuro l'aspettativa. Se ci è permesso dir così, vedo i tre tempi e ammetto che siano tre. E si dica pure che sono tre, passato, presente, futuro, come è abusata consuetudine: a me non importa, non oppongo né resistenza né rimproveri, purché si capisca ciò che si dice -che ciò che è futuro non è, come ciò che è passato. Raramente infatti parliamo con proprietà di linguaggio e il più delle volte usiamo espressioni improprie, ma si capisce quello che vogliamo dire.
Poco fa ho detto che misuriamo il passare del tempo, se è vero che siamo in grado di dire che questo intervallo di tempo è doppio di quello o pari a quello, e di render conto di ogni altra relazione fra le parti del tempo, con la misurazione. Dunque, come dicevo, noi misuriamo il passare del tempo, e se qualcuno mi chiede come faccio a saperlo rispondo: so che noi misuriamo, e so che non possiamo misurare ciò che non esiste, e il passato e il futuro non esistono. Ma il tempo presente in che modo lo misureremmo, se non ha estensione? Lo si misura dunque mentre passa, e una volta passato non lo si misura perchè non c'è più nulla da misurare. Ma da dove viene e per dove passa e dove va, quando lo si misura? Da dove se non dal futuro? Per dove se non attraverso il presente? Dove se non nel passato? Dunque: da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Eppure sodo proprio estensioni di tempo quelle che misuriamo: e che altro se no? Quelle che chiamiamo semplici e doppie e triple e uguali e in quanti altri modi le chiamiamo, non sono appunto che estensioni di tempo. E allora qual è l'estensione in rapporto alla quale misuriamo il tempo che passa? E nel futuro forse, dal quale viene? Ma ciò che ancora non è non ha misura. Allora nel presente, per cui passa? Ma ciò che non ha estensione non ha misura. O nel passato, verso cui va? Ma ciò che non è più non ha misura.
Arde la mente che vuol penetrare l'intrico foltissimo di questo enigma. Non sbarrarmi la porta al desiderio, mio Dio e Signore, lascia che penetri queste cose tanto familiari quanto misteriose, e che il raggio della tua misericordia le illumini. Chi potrò interrogare su argomenti del genere? E a chi con qualche frutto confessare la mia ignoranza se non a te, cui non son forse sgraditi gli infiammati studi e la veemenza con cui assalgo le tue Scritture. Dammi quello che amo –perché sei tu che mi hai dato d'amare. Dammi, padre che veramente sai i doni che vanno bene per i tuoi figli, dammi di conoscere, perché ho messo mano a questa impresa e ho davanti la fatica, finché tu non mi apri. Te ne prego per Cristo, in nome del santo dei santi, nessuno mi frastorni adesso. Anch'io ho creduto, ed è per questo che parlo. Questa è la mia speranza e di lei vivo, per contemplare la felicità di Dio. Hai portato a vecchiaia i miei giorni, e passano, e come, non so. E noi siam sempre lì a parlar del tempo e dei tempi: "Quanto tempo fa l'ha detto", "Quanto tempo fa l'ha fatto", "Da quanto tempo non lo vedo", e "Questa sillaba dura un tempo doppio di quell'altra breve". Facciamo e sentiamo fare queste asserzioni e capiamo e ci facciamo capire. Sono cose evidentissime e perfettamente familiari, eppure sono così oscure, e la loro scoperta è cosa nuova.
Ho udito dire da un dotto che i tempi altro non sono che i movimenti del sole e della luna e delle stelle: e io non ho assentito. E perché non piuttosto i movimenti di tutti i corpi, allora? Ma supponiamo che i luminari del cielo si arrestino e la ruota del vasaio continui a girare: verrebbe meno il tempo con cui misurare i suoi giri e dire o che hanno uguale durata oppure, se si compiono ora più lentamente e ora più presto, che alcuni durano più, altri meno a lungo? E nel dir questo non parleremmo noi pure nel tempo, e le nostre parole non conterrebbero sillabe lunghe e sillabe brevi? E come, se non in base al loro risuonare per un tempo più lungo o più breve? Dio, dai alla gente il dono di vedere anche nel piccolo le idee comuni a piccole e grandi cose. Ci son le stelle e i luminari del cielo a far da segni delle stagioni e dei giorni e degli anni. Ci sono, certo: ma come io non direi che il giro di quella piccola ruota di legno sia addirittura il giorno, quello non oserà negare che sia pure un periodo di tempo.
Il mio desiderio è di conoscere la funzione e la natura del tempo, in quanto
ci serve da misura dei movimenti dei corpi e ci consente di dire, ad esempio,
che quel movimento dura il doppio di questo. Ora, si dice giorno non solo il
periodo di permanenza del sole sopra l'orizzonte, in opposizione alla notte,
ma anche l'intero giro che esso compie da oriente a oriente, come quando diciamo:
"Passarono tanti giorni", intendendo includere le relative notti. Dato dunque
che un giorno si compie in una rotazione completa del sole da oriente a oriente,
io mi chiedo se il giorno sia la rotazione stessa, o la sua durata, o entrambi.
Nel primo caso, anche se il sole completasse il suo corso in un intervallo di
tempo pari a quello di un'ora, questo sarebbe ancora un giorno; nel secondo
dato che l'intervallo di tempo fra una levata e l'altra del sole fosse di un'ora,
ci vorrebbero ventiquattro rotazioni del sole perché fosse compiuto un giorno.
Ma nel terzo caso non si chiamerebbe giorno né l'intero giro compiuto dal sole
nello spazio di un'ora, né una pura e semplice quantità di tempo pari a quella
che normalmente impiega il sole a coprire tutto il suo percorso, da un'alba
alla successiva, ma trascorsa, supponiamo, a partire da un arresto del sole.
Ora dunque non mi chiederò più che cosa sia ciò che chiamiamo giorno, ma che
cosa sia il tempo che ci consente di misurare la rotazione del sole e di dire
eventualmente che l'ha compiuta nella metà del tempo impiegato normalmente,
qualora l'abbia in effetti compiuta in un intervallo di tempo pari a quello
di dodici ore; che cosa sia insomma il tempo che ci consentirebbe di confrontare
i due intervalli di tempo e di dire che l'uno è doppio dell'altro anche se il
sole impiegasse a volte quel dato tempo, a volte il doppio a completare il suo
giro da oriente a oriente. Nessuno dunque mi venga a dire che sono tempi i moti
dei corpi celesti, perché quando il sole si fermò su preghiera di un uomo, per
consentirgli di portare vittoriosamente a compimento una battaglia, il sole
stava fermo, ma il tempo passava. Per tutto il tempo necessario, né più né meno,
quella battaglia fu combattuta, fino al suo termine. Il tempo dunque è qualcosa
come un pro-trarsi, ora lo vedo. Ma lo vedo veramente, o mi pare soltanto di
vedere? Me lo mostrerai tu, luce, verità.
Mi ordini di approvare chi afferma che il tempo è il movimento dei corpi? No. Sento dire piuttosto che un corpo non si muove se non nel tempo: tu lo dici. Infatti mentre il corpo si muove io misuro la durata del suo movimento, dall'inizio alla fine. E se non ho visto quando è cominciato il movimento e questo continua in modo che non vedo quando finisce, non sono in grado di misurarne la durata, a meno di non calcolarla dal momento in cui io comincio a vederlo a quello in cui non lo vedo più. Se resta a lungo in vista, posso riferire soltanto che il tempo impiegato è lungo, ma non specificare quanto, perché per dire quanto noi ci serviamo di un confronto, del tipo: "Dura tanto quanto quello" oppure "il doppio di quello" e così via. Se invece abbiamo potuto determinare le distanze dei luoghi di partenza e di arrivo del corpo in moto, o qualche punto di riferimento sul corpo stesso, nel caso si muova come su un tornio, allora possiamo specificare in quanto tempo si effettua il movimento del corpo o di una sua parte da un luogo. all'altro. Altro è il movimento del corpo, altro ciò che a noi consente di misurarne la durata: e chi non vede a quale delle due cose conviene il nome di tempo? Anche se un corpo ora si muove ora sta fermo noi misuriamo quanto tempo dura non solo il movimento, ma anche la quiete, e diciamo "E’ stato fermo per un tempo uguale a quello che ha trascorso in moto", oppure "È stato fermo due o tre volte il tempo che ha trascorso in moto", o comunque risulti ai nostri calcoli, con i precisione o, come si suoI dire, più o meno. Il tempo non è dunque il movimento dei corpi.
E ti confesso Signore che ancora non lo so, cosa sia il tempo, e ancora ti confesso, Signore, che so di fare questo discorso nel tempo e che da molto ormai sto parlando del tempo e che questo molto non è molto se non perché dura nel tempo. E come lo so allora, se non so che cos'è il tempo? O forse non so come dirlo, ciò che so? Ah, non so più neppure che cosa non so...Vedi, mio Dio, che non mento davanti a te: così come parlo è il mio cuore. L'accenderai tu la mia lucerna, mio Dio e Signore, farai un po' di luce nel mio buio'.
Non è veridica la confessione in cui quest'anima lo ammette, che io misuro il tempo? Mio Dio, dunque misuro e non so cosa misuri. Misuro in termini di tempo il movimento di un corpo. Ma allora non misuro il tempo stesso? O potrei misurare quanto dura il moto del corpo e quanto questo impieghi a coprire una certa distanza, altrimenti che misurando il tempo in cui si muove? E allora il tempo stesso come lo misuro? Forse misuriamo un intervallo di tempo con uno più breve, come con la lunghezza di un cubito misuriamo quella di un asse? Sì, in questo modo a quanto pare misuriamo l'estensione temporale di una sillaba lunga con quella di una breve, e la diciamo doppia di questa. Così misuriamo l'estensione dei poemi con quella dei versi e quella dei versi con quella dei piedi, e quella dei piedi con quella delle sillabe e quella delle sillabe lunghe con quella delle sillabe brevi: non la misuriamo in pagine perché a quel modo misureremmo l'estensione spaziale, non quella temporale -ma col passare del suono delle parole che pronunciamo, dicendo: "E’ un poema lungo, perché si compone del tal numero di versi; son versi lunghi perché sono costituiti da tanti piedi; piedi lunghi, perché si estendono per tante sillabe; sillaba lunga perché è doppia di una breve". Ma neppure così si afferra una determinata misura di tempo, perché può ben darsi che un verso più breve, se lo si pronuncia protraendo il suono della voce, continui a risuonare per un intervallo di tempo maggiore di quello di un verso più lungo pronunciato più in fretta. E questo vale per un poema, per un piede, per una sillaba. Perciò mi è parso che il tempo non fosse che una sorta di protrazione: ma di che cosa, non lo so. Della mente stessa forse? Sì, non può che esser così. Perché, mio Dio, che cosa misuro io di grazia, quando faccio un'affermazione o indeterminata come "Questo intervallo di tempo è più lungo di quello", o anche determinata come "È il doppio di quello"? Misuro il tempo, lo so: ma non misuro il futuro, perché non esiste ancora, non misuro il presente perché non occupa alcuna estensione, non misuro il passato perché non esiste più. Che cosa misuro allora? Non il passato ma il tempo che passa? Così infatti avevo affermato.
Insisti mente, intensifica ancora l'attenzione: Dio è il nostro aiuto; non ci siamo fatti da noi, lui ci ha fatto. Ecco, ad esempio, una voce umana comincia a risuonare, risuona, risuona ancora e cessa, ora è silenzio e quel suono vocale è passato e non è più. Era ancora a venire prima che risuonasse e non poteva essere misurata perché ancora non era, e ora non può esserlo perché non è più. Dunque poteva allora, mentre risuonava, perché allora c'era qualcosa da misurare. Ma allora non restava ferma, ma andava via, passava. O forse proprio per questo si poteva misurarla? E passando infatti che occupava una certa estensione temporale misurabile, mentre invece il presente non ha estensione. Ammettiamo dunque che si poteva misurarla allora, e supponiamo che un'altra cominci a risuonare e continui a farlo, con continuità e uniformità di tono; misuriamo dunque quanto dura questo suono, finché dura, perché quando il suono sarà cessato, sarà già passato e non ci sarà più niente da misurare. Misuriamo bene questa durata: ma la voce ancora risuona e bisogna misurarla dal momento iniziale, in cui ha preso a risuonare, fino a quello finale, in cui è cessata. Un dato intervallo si misura appunto dall'inizio alla fine. Ma il suono della voce non è ancora cessato, e dunque non si può misurare la sua durata e concludere che è breve o lunga o uguale a quella di un altro suono o doppia di quella o quant'altro. Ma una volta cessato, il suono non sarà più. E allora con che metro misureremo la sua durata? Eppure noi misuriamo gli intervalli di tempo: ma non quando non sono ancora in corso, né quando non lo sono già più, né quando sono privi di estensione, né quando non hanno termini. Dunque non misuriamo né il futuro né il passato né il presente né il tempo che passa: eppure misuriamo il tempo.
Deus creator omnium: in questo verso di otto sillabe si alternano sillabe brevi e lunghe: quindi le quattro brevi – la prima, la terza, la quinta e la settima -durano la metà rispetto alle quattro lunghe -la seconda, la quarta, la sesta e l'ottava. Ciascuna di queste dura un tempo doppio rispetto a ciascuna delle prime: me ne convinco pronunciando il verso, che è così, almeno per quello che può rivelare l'orecchio. A quanto l'orecchio mi dice, misuro la sillaba lunga con la breve e avverto che dura due volte tanto. Ma, dato che le sillabe risuonano una dopo l'altra, se la breve vien prima della lunga come farò a trattenere la breve e ad applicarla come metro alla lunga, e a trovare che è due volte tanto, se la lunga comincia a risuonare solo quando ha smesso di farlo la breve? E a misurare la lunga mentre ancora è presente, quando non posso misurarla se non è finita? Ma quando è finita è passata. E allora che cos'è che misuro? Dov'è la breve che mi fa da metro? Dov'è la lunga che devo misurare? L'una e l'altra han finito di risuonare, sono volate via, sono passate e non ci sono più: e io misuro e rispondo tranquillamente, con tutta la confidenza che si ha in un senso esercitato, che l'una è semplice e l'altra doppia -quanto all'estensione temporale, voglio dire. Ma non sono in grado di far questo se non perché son già passate e finite. Non loro dunque, che non sono più, misuro: ma qualcosa nella mia memoria, qualcosa che vi si fissa.
In te, anima mia, misuro il tempo. Non frastornarmi coi tuoi "cosa? come?" Non frastornare te stessa con la folla delle tue impressioni. In te, dico, io misuro il tempo. Sì, l'impressione che le cose passando producono in te rimane quando le cose son passate: è questa che è presente, non quelle, che son passate perché lei ne nascesse. E questa che misuro, quando misuro il tempo. Il tempo è lei -o non è il tempo quello che misuro. E allora quando misuriamo i silenzi e diciamo che questa pausa dura quanto quel suono? Ma appunto: in questi casi per poter calcolare in qualche modo l'estensione temporale degli intervalli di silenzio, noi ci fingiamo in loro luogo il suono della voce e cerchiamo di misurare mentalmente la durata che avrebbe. Anche senza usare la voce e le labbra noi recitiamo mentalmente poemi e versi e discorsi: e siamo sempre in grado di indicare quanto durano i loro svolgimenti e che quantità di tempo occupano l'uno relativamente all'altro, non altrimenti che se li recitassimo a voce alta. Supponiamo che uno voglia emettere un suono appena un po' più lungo e abbia mentalmente prestabilito quanto dovrà esser lungo: costui avrà certamente percorso in silenzio e affidato alla memoria quel determinato lasso di tempo, e quindi avrà preso a emettere la voce, che risuona finché sia giunto il termine stabilito. Anzi, che è risuonata e risuonerà: perché quella che è già passata è senza, dubbio risuonata, e quanto ne resta risuonerà. Ed è così che passa, mentre l'intenzione presente traduce il futuro in passato, e il passato cresce via via che decresce il futuro, finché consumato il futuro tutto sarà passato.
Ma come può decrescere o consumarsi il futuro che non esiste ancora, e come può crescere il passato che non esiste più, se non in quanto esistono tutti e tre nella mente che opera questo processo? Perché è la mente che ha aspettative, fa attenzione, ricorda: e quello che si aspetta le si fa oggetto di attenzione per divenire oggetto di memoria. Chi nega allora che il futuro ancora non esista? Ma c'è già l'aspettativa mentale del futuro. E chi nega che il passato non esista più? Ma nella mente ancora c'è il ricordo del passato. E chi nega che il tempo presente sia privo di estensione, poi che passa in un punto? Ma ciò che perdura è l'attenzione, attraverso la quale ogni cosa si abbia presente sconfina gradualmente nell'assenza. Quindi non è lungo il tempo futuro, che non esiste, ma un lungo futuro è, una aspettativa a lungo termine di cose a venire, e non è lungo il passato, che non esiste, ma un lungo passato è una memoria di lunga durata delle cose avvenute.
Agostino, Confessioni, Libro XI, 14-28, trad. it. Garzanti, Milano 1991, pp. 224-232