Orazio
Ispirazione e sapienza per una “poesia felice”

Il Lazio non sarebbe più potente per il valore e per le armi gloriose che per la lingua, se ogni poeta non avesse avuto a schifo la lenta fatica della lima. Voi, Pisoni, sangue di Pompilio, disapprovate fermamente il poema che lungo tempo e molte cancellature non abbiano limato e corretto fino all'unghia, perfetto dieci volte. Poiché Democrito è convinto che l'estro bizzarro e la follia geniale abbiano successo più dell'infelice arte dello studio ed escluse dall'Elicona i sani di mente, ecco che gran parte dei poeti non si cura di tagliarsi le unghie e non si rade la barba, cerca luoghi isolati, evita i bagni pubblici. Infatti crede di guadagnarsi la fama e il titolo di poeta non porgendo mai il capo — che nemmeno tutte e tre le Anticire potranno più sanare — al barbiere Licino. Stupido io che quando si avvicina la primavera vado a disintossicarmi la bile! Nessun altro farebbe poesie migliori delle mie: ma veramente non ne vale la pena. Farò allora le veci della cote, che serve a fare il filo alla lama, ma di per sé non taglia: insegnerò, pur nulla scrivendo io stesso, il compito e il dovere del poeta; da dove si procuri la materia, di che si nutra e formi, che cosa gli si addica e cosa no, dove lo conduca la virtù, dove l'errore. Principio e fonte dello scrivere bene è la sapienza.
[…]
Ci si è chiesti se una poesia felice, degna di lode, sia frutto di natura o dell'arte meditata. Per conto mio non vedo che cosa possa lo studio senza una ricca vena, o l'estro ineducato: l'uno chiede il soccorso dell'altro e tutti e due si alleano in amicizia.

Quinto Orazio Flacco, Arte poetica (Lettera ai Pisoni), vv. 289-309, 408-411, a c. di C. Damiani, Fazi, Roma 1995

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