Aristotele
Poesia e storia

A costituire l’unità di una favola non basta, come credono alcuni, ch’ella si aggiri intorno a un unico personaggio. Molte, anzi innumerabili cose possono capitare a una persona senza che tuttavia alcune di esse sian tali da costituire [fra loro e con le altre] unità; e così, anche le azioni di una persona possono essere molte senza che tuttavia ne risulti un’unica azione. Perciò mi pare siano in errore tutti quei poeti che hanno composto un’Eracleide, una Teseide e altrettali poemi: costoro credono che, essendo uno l’eroe, per esempio, Eracle, abbia da essere una anche la favola che tratta di Eracle. Omero invece, come per ogni altro rispetto si distingue da tutti i poeti, così anche in questo, mi sembra, vide giusto, o per conoscenza di teorie artistiche o per naturale genio: perocchè, poetando l’Odissea, non si mise a poetare tutti i casi che capitarono a Odisseo, come, per esempio, che fu ferito sul Parnaso, e che si fece passare per pazzo quando i Greci si radunarono per la spedizione; – due casi dei quali, perché ne accadde uno, non era affatto né necessario né verisimile che dovesse accadere anche l’altro; – ma compose la Odissea, e così anche la Iliade, intorno a un’azione unica nel senso che veniamo dichiarando. Come dunque nelle altre arti di imitazione la mimèsi è una se uno è il suo obbietto, così anche la favola, poiché è mimèsi di azione, deve esser mimèsi di un’azione che sia unica, e cioè tale da costituire un tutto compiuto; e le parti che la compongono devono essere coordinate per modo che, spostandone o sopprimendone una, ne resti come dislocato e rotto tutto l’insieme. E in verità quella parte la quale, ci sia o non ci sia, non porta una differenza sensibile, non può essere parte integrale del tutto.
Da quello che si è detto risulta chiaro anche questo, che ufficio del poeta non è descriver cose realmente accadute, bensì quali possono (in date condizioni) accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verisimiglianza o della necessità. Infatti lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scriva in versi e l’altro in prosa; la storia di Erodoto, per esempio, potrebbe benissimo esser messa in versi, e anche in versi non sarebbe meno storia di quel che sia senza versi: la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare. Dell’universale possiamo dare un’idea in questo modo: a un individuo di tale o tale natura accade di dire o fare cose di tale o tale natura in corrispondenza alle leggi della verisimiglianza o della necessità; e a ciò appunto mira la poesia sebbene ai suoi personaggi dia nomi propri. Il particolare si ha quando si dice, per esempio, che cosa fece Alcibiade o che cosa gli capitò. Tutto questo, nella commedia, oggi [che la nuova ha sostituito l’antica], è divenuto chiarissimo: i poeti dapprima, con una serie di casi verisimili, inventano e compongono la favola, e poi, allo stesso modo, inventano e mettono i nomi ai personaggi; non fanno come gli (antichi) poeti giambici che poetavano intorno a persone vere e proprie. Nella tragedia i poeti si attengono ai nomi già fissati dalla tradizione [o mitica o storica]. E la ragione è questa, che è credibile ciò che è possibile. Or appunto, finché le cose non sono accadute, noi non siamo disposti a crederle possibili, ma è ben chiaro che sono possibili quelle che sono accadute, perché non sarebbero accadute se non erano possibili. Ciò nonostante, anche fra le tragedie, ce n’è di quelle in cui uno o due nomi soltanto sono conosciuti e gli altri sono inventati; in alcune poi di noto non c’è addirittura niente, come nell’Ante di Agatone, dove e nomi e fatti sono egualmente inventati, e non per cotesto la tragedia piace meno. Non bisognerebbe dunque esigere che ci si mantenesse rigidamente fedeli ai miti tradizionali su cui si fondano [in genere] le tragedie. E in verità sarebbe ridicolo aver di queste esigenze quando poi anche le cose note non a tutti sono note e tutti non di meno ne sono dilettati. D’onde si conclude chiaramente che il poeta ha da esser poeta [cioè creatore] di favole anzi che di versi, in quanto egli è poeta solo in virtù della sua capacità mimetica [cioè creatrice], e sono le azioni che egli imita [o crea, non i versi]. Se poi capiti a un poeta di poetare su fatti realmente accaduti, costui non sarà meno poeta per questo: perocché anche tra i fatti realmente accaduti niente impedisce ve ne siano alcuni di tal natura [da poter essere concepiti non come accaduti realmente, ma] quali sarebbe stato possibile e verisimile che accadessero; ed è appunto sotto questo aspetto (della loro possibilità e verosimiglianza) che colui che li prende a trattare (non è il loro storico) ma il loro poeta.

Aristotele, Poetica, §§ 8-9; trad. it. Opere, 10, Laterza, Bari 1973, pp. 209-213

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