Platone
La dottrina della chôra

Questo nuovo ragionamento intorno all'universo avrà più partizioni del precedente. Allora noi distinguemmo due specie, ora noi dobbiamo dichiarare una terza specie nuova. Perché nel discorso di prima ne bastavano due, l'una posta come specie del modello, intelligibile e sempre nello stesso modo, l'altra come immagine del modello, generata e visibile. E allora non ne distinguemmo una terza, credendo che due sarebbero sufficienti: ma ora sembra che il ragionamento ci costringa a tentare di chiarire con le parole questa specie difficile e oscura. E qual potenza si deve stimare che abbia secondo natura? Questa specialmente, d'essere ricettacolo di tutto ciò che si genera, quasi una nutrice. Questa è la verità, ma conviene mostrarla con più chiarezza: ma questo è difficile per altre ragioni, e anche perché a causa di esso è necessario sollevare dei dubbi intorno al fuoco e agli altri elementi congiunti col fuoco. Infatti è difficile dire per ciascuno di essi quale si debba veramente chiamare acqua piuttosto che fuoco, e quale in qualsiasi altro modo che non tutti o ciascuno, sicché si possa parlare con fedeltà e sicurezza. Come dunque diremo questo, e in che modo, e quale sarà la soluzione giusta dei nostri dubbi ? Prima di tutto, questa che ora abbiamo chiamato acqua, quando si congela, vediamo che, come ci sembra, diviene pietre e terra, e quando evapora e si dissolve, vento e aria, e l'aria arsa diviene fuoco, e invece il fuoco compresso e spento torna di nuovo in forma d'aria, e l'aria costretta e condensata diviene nuvola e nebbia, e da queste ancora più contratte scorre acqua, e dall'acqua di nuovo si formano terra e pietre: sicché questi corpi come in circolo sembrano trasmettersi a vicenda la generazione. E poiché nessuno di questi corpi presenta mai la medesima figura, di quali di essi si potrebbe sostenere fermamente, senza vergognarsi, che è quel tale e non un altro ? certo di nessuno: ma il modo di parlare di gran lunga più sicuro intorno a queste cose è il seguente. Di quello che noi vediamo passare sempre da una forma all'altra, come il fuoco, non si deve dire questo è il fuoco, ma ogni volta: tale è il fuoco; ne questa è l'acqua, ma sempre: tale è l'acqua; e così nessun'altra di quelle cose che, come se avessero qualche stabilità, indichiamo con le parole questo e cotesto, credendo di significare qualche cosa: perché sfuggono e non sopportano le denominazioni di ‘questo’ e di ‘codesto’ e di ‘così’ e ogni altra che le indichi come stabili. Non dobbiamo dunque chiamare a questo modo ciascuna di queste cose, ma tanto di ciascuna che di tutte insieme solo quello che è tale e passa identico dall'una all'altra, e però anche fuoco quello che dovunque è tale, e così per ogni cosa che ha nascimento. Ma quello, dove ciascuna cosa nascendo si mostra e donde di nuovo svanisce, solo quello si deve chiamare col nome di questo e di codesto, invece le qualità, come caldo o bianco o qualsiasi dei contrari e tutto che nasce di loro, niente di questo si può fermare con parole così. Ma di ciò procureremo di parlare nuovamente con più chiarezza. Se alcuno plasmando in oro figure d'ogni specie, non ritenesse mai di trasformare ciascuna di esse in tutte le figure, e un altro, mostrando una di quelle, domandasse che cos'è, sarebbe molto più sicuro, rispetto alla verità, rispondere che è oro: quanto al triangolo e alle altre figure, che ivi si formarono, non converrebbe mai nominarle come esistenti, perché mutano mentre si pongono, ma contentarsi, se volessero accettare sicuramente anche il tale. Ora lo stesso ragionamento vale per quella natura che riceve tutti i corpi: si deve dire che è sempre la stessa, perché non perde affatto la sua potenza, ma riceve sempre tutte le cose, e in nessun modo prende mai una forma simile ad alcuna di quelle cose che entrano in essa: perché essa di sua natura è la materia formativa di tutto, che è mossa e figurata dalle cose che vi entrano, e appare, per causa di esse, ora in una forma e ora in un'altra: e le cose ch'entrano ed escono son sempre immagini di quelle che esistono sempre, improntate da esse in modo ineffabile e meraviglioso, che dopo indagheremo. Dunque, per ora occorre concepire tre generi, quello che è generato, quello in cui è generato 88, e quello a cui somiglianza nasce quello che è generato. E così conviene paragonare alla madre quello che riceve 80, al padre quello donde riceve, al figlio la natura intermedia, e considerare che, dovendo l'impronta essere d'aspetto variato di tutte le varietà, quello stesso, in cui avviene l'impressione, non altrimenti sarebbe ben preparato che se mancasse di tutte quelle
[e] forme, che è per ricevere dal di fuori. Infatti, se fosse simile ad alcuna delle cose che entrano, quando ne venisse una di natura contraria e interamente diversa, ricevendola la rappresenterebbe male, perché farebbe vedere la sua propria figura. E però è anche necessario che sia estraneo a tutte le forme quello che è per ricevere in sè tutti i generi, come per gli unguenti odorosi con arte si cerca prima di tutto di fare in modo che siano, quanto è possibile, inodori i liquidi, che devono ricevere gli odori: e quelli che prendono ad improntare figure in materia molle, non lasciano che vi sia nessuna figura visibile, e spianandola prima, la levigano quanto più possono. Dunque, anche quello che spesso deve ricevere fedelmente in ogni sua parte le immagini di tutte le sostanze che sono sempre, conviene che sia per natura estraneo a tutte le forme. Perciò la madre e il ricettacolo delle cose generate visibili e pienamente sensibili. Non dobbiamo chiamarla ne terra, ne aria, ne fuoco, ne acqua, ne alcuna delle cose che sono nate da queste o da cui queste sono nate; ma, dicendo ch'è una specie invisibile e informe e ricettrice di tutto, e partecipe in qualche modo oscuro dell'intelligibile, e incomprensibile, non c'inganneremo. E per quanto dalle cose dette prima si può arrivare alla sua natura, così si potrebbe molto rettamente dire che ogni volta sembra fuoco la parte infocata di essa, e acqua la parte liquida, e terra e aria in quanto esprime le loro sembianze. Ma noi nel nostro discorso dobbiamo considerare la questione determinandola meglio a questo modo: se v' è un fuoco di per se, e così per tutte le cose di cui sempre diciamo che ciascuna è di per sé, o se queste cose, che anche vediamo, e le altre, che percepiamo col corpo, son le sole ad avere tale verità, e altre fuori di queste non ve ne sono punto in nessun modo, ma ogni volta diciamo vanamente che v'è una forma intelligibile di ciascuna cosa, non essendo altro codeste forme che parole. Pertanto, se noi lasciamo la presente questione senza esaminarla ne giudicarla, non conviene affermare sicuramente che sta così, e neppure è da aggiungere alla lunghezza del discorso anche la lunghezza d'una digressione: ma, se si trovasse con poche parole una grande separazione definita, questo sarebbe sopra tutto opportuno. Così dunque esprimo il mio parere: se l'intelligenza e la vera opinione son due generi diversi, esistono assolutamente di per se queste specie non percebili da noi col senso, ma solo intelligibili: se poi, come sembra ad alcuni, la vera opinione non differisce per niente dall'intelligenza, si devono invece ritenere come fermissime tutte le cose che percepiamo per mezzo del corpo. Ma si deve dire che quelli son due generi diversi, perché nati separatamente e aventi natura dissimile. Infatti l'un d'essi nasce mediante l'insegnamento, l'altro dalla persuasione: e l'uno è sempre con vera ragione, l'altro irrazionale; e l'uno immobile alla persuasione, e l'altro persuadibile; e dell'uno si deve dire che partecipa ogni uomo, dell'intelligenza gli dèi e piccol numero d'uomini. E se queste cose stanno così, si deve convenire che vi è una specie che è sempre nello stesso modo, non generata, ne peritura, che non riceve in sè altra cosa da altrove, ne passa mai in altra cosa, e che non è visibile, ne percepibile in altro modo, ed è quella appunto che all'intelligenza fu dato di contemplare: ma v'è una seconda specie del medesimo nome e simile ad essa, sensibile, generata, agitata sempre, che nasce in qualche luogo e di là nuovamente perisce, e che si comprende mediante l'opinione accompagnata dal senso: e v' è poi una terza specie sempre esistente, quella dello spazio, la quale è immune da distruzione, e dà sede a tutte le cose che hanno nascimento, e si può percepire senza il senso per mezzo d'un ragionamento bastardo, ed è appena credibile, guardando alla quale noi sogniamo e diciamo esser necessario che tutto quello che è si trovi in qualche luogo e occupi qualche spazio, e che quello, che non è ne in terra ne in qualche luogo del cielo, non è niente. Ma tutte queste cose, e altre sorelle di esse, anche nella natura vigile e veramente esistente, noi per questo sognare non possiamo distinguerle appena svegliati e dire la verità: che cioè
l'immagine, perché neppure quello stesso, per cui fu generata, le appartiene, ed essa si muove sempre come fantasma di un altro, per questo conviene che si generi in altra cosa, attaccandosi in qualche modo alI'esistenza, oppure che non sia proprio niente: invece a quello che esiste realmente la ragione esattamente vera soccorre, dimostrando che finche una cosa è una cosa, e un'altra è un'altra, nessuna delle due può esistere nell'altra in modo da essere insieme una cosa sola e due.

Platone, Timeo, XVIII, 48e – 52d, trad. it. in Opere, Laterza, Roma-Bari 1986, vol. 6

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