U. Eco
Il problema estetico in Tommaso d'Aquino

Si tratta dunque anzitutto di decidere se, secondo l'Aquinate, il placet, il consenso soggettivo conseguente la visione, sia essenziale alla predicabilità della bellezza nei confronti di un oggetto (così che l'oggetto non possa esser detto bello se non in relazione a quel consenso e a quella compiacenza), o se l'oggetto possegga stabili ed assolute condizioni di bellezza che la visio rileva e di cui si compiace […] Si è detto che il visa è una definizione per l'effetto; ma in realtà il visa placent sta al Bello come il quod omnia appetunt al Buono. Ora il Buono non è soltanto ciò che tutti desiderano, ma è l'ente che ha in sé una struttura talmente perfetta da porsi come fine del desiderio: l'appetibilità non costituisce il Buono, ma il nostro atteggiamento di fronte ad esso. Così avviene per il Vero: c'è un Vero ontologico, e c'è un Vero formale. Perché questa distinzione non potrebbe porsi anche per il Bello? Notiamo: sia il Vero che il Buono, nella loro struttura ontologica, non sono che la perfezione stessa dell'ente esistente, e come tali possono divenire termine dell'appetito (e rivestire un aspetto di causa finale), o il polo di un adeguamento che ha al polo opposto il giudizio intellettuale. Parrebbe naturale quindi arguire che anche il Bello si costituisca formalmente come una relazione tra il soggetto e la cosa, ma che la cosa, nella sua stessa struttura oggettiva, abbia elementi che si offrono alla contemplazione. Infatti Tommaso ricorda più volte che il Bello consistit, ad es., "in debita proportione" oppure che "ad pulchritudinem tria requiruntur", e tutto ciò sembra porre molto esplicitamente delle condizioni oggettive.

U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d'Aquino, Bompiani, Milano 1982, pp. 80-82

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