Agostino
Il maestro e la parola

Io cerco principalmente di persuaderti, se mi sarà possibile, che nulla noi impariamo per mezzo dei segni che chiamiamo parole: infatti noi apprendiamo il valore della parola, ossia il significato che si nasconde nel suono, con la conoscenza della cosa significata piuttosto che apprendere la cosa per tale significazione […] Apprenderò la cosa che non conoscevo, non mediante le parole che vengono dette, ma per la visione della cosa che ha permesso che io conoscessi e ritenessi il valore della parola. Quando io ho appreso la cosa, non ho creduto alle parole altrui, ma ai miei occhi: e tuttavia forse ho creduto alle parole per considerare la cosa, cioè per cercare con la vista ciò che dovevo vedere […].
Con le parole dunque non impariamo se non le parole, non solo il suono e il rumore delle parole: e se ciò che non è segno non può essere parola, per quanto io abbia udito la parola, tuttavia io non so se sia parola finché non sappia che cosa significhi. Conosciute le cose, si compie anche la conoscenza delle parole; ma l’avere soltanto udito delle parole, non significa averne cognizione. Infatti le parole che noi conosciamo, non le apprendiamo; quelle che non conosciamo, non possiamo dirle di averle imparate se non ne abbiamo afferrato il significato, ciò avviene se non per l’ascolto della voce emessa ma per la conoscenza delle cose significate.
In tutte le cose che noi comprendiamo, noi non consultiamo la voce che risuona dal di fuori, ma la verità che è presente all’interno della nostra mente, forse stimolati a consultarla dalle parole. Ma chi consulta e ci insegna è colui che abita nell’interno dell’uomo, il Cristo, la immutabile virtù di Dio e la eterna sapienza: che viene consultata da ogni anima ragionevole, ma che si rivela soltanto ed in quanto glielo permette la buona e cattiva volontà del singolo. E se qualcuno talvolta sbaglia, ciò non avviene per vizio della verità consultata.
Dunque io, dicendo il vero non insegno a colui che scorge la verità: infatti egli non si istruisce per le mie parole, ma per le cose stesse a lui manifeste, perché Dio internamente gliele presenta; e perciò se fosse interrogato, potrebbe rispondere[...]
Forse i maestri hanno il compito di far accogliere il loro pensiero, o non piuttosto la scienza in sé che trasmettevano con la loro parola? Chi infatti è così stoltamente curioso da mandare a scuola il proprio figliolo solo perché impari ciò che pensa il maestro? Ma quando tutte le discipline che essi si propongono di insegnare, le stesse scienze della virtù e della sapienza, l’hanno spiegata con parole, allora quelli che si chiamano discepoli considerano entro di sé, contemplando secondo la loro forza la verità interiore, se hanno detto il vero. E allora soltanto propriamente imparano: quando hanno scoperto, dentro di sé, che i maestri hanno detto il vero; e allora li lodano senza sapere peraltro che lodano piuttosto degli uomini istruiti anziché dei dotti: anche se questi conoscono bene ciò che dicono. Sbagliano poi gli uomini a chiamare maestri quelli che non lo sono, perché spesso non passa alcun intervallo di tempo tra la cosa detta e la cosa appresa; e poiché subito dopo l’ammonimento di chi parla apprendo dal di dentro, credono di aver imprato dal di fuori, cioè da colui che ha invece soltanto ammonito […]

Agostino, De Magistro, da 10,35 a 11,38, trad. it. Il maestro, Rusconi, Milano 1993, p. 67 e sgg.

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