Giovanni di Salisbury
Il principe e la legge

I principi non devono credere che sottomettersi alla legge sia una umiliazione; a meno che non ritengano la loro giustizia preferibile a quella di Dio, che è eterna e segue la legge dell'equità. Ora l'equità, come sostengono esperti giuristi, è un accordo delle cose che le equipara tutte secondo ragione e cerca di stabilire regole analoghe per situazioni analoghe, imparziale di fronte a tutti nell'attribuire a ciascuno il suo. La legge, poi, è l'interprete dell'equità, il tramite della volontà di equità e di giustizia.
Crisippo affermò che la legge dispone del divino e dell'umano, e che perciò presiede su ogni bene e su ogni male, ed è signore e guida delle cose come degli uomini. L'abilissimo giurista Papiniano ed il grande oratore Demostene sembrano dargli ragione, quando sottomettono tutti gli uomini all'obbedienza della legge, che è invenzione e dono di Dio, precetto dei sapienti, correzione degli eccessi della volontà, costituzione della città e bando di ogni crimine; secondo la quale devono vivere tutti quanti siano membri di una comunità politica.
Tutti sono vincolati alla necessità di rispettare la legge; a meno che vi sia qualcuno cui sembri concesso di comportarsi ingiustamente. Tuttavia, il principe è detto essere sciolto dai vincoli della legge non Perché gli sia lecito commettere delle ingiustizie, ma perché deve promuovere l'equità non per timore della pena ma per amore della giustizia, procurando il benessere dello stato e anteponendo in ogni circostanza il bene altrui alla sua propria volontà.
Ma come parlare di una volontà politica del principe, quando nulla in quest'ambito gli è concesso volere, se non ciò che la legge e l'equità consigliano o ciò cui porta il calcolo della comune utilità? La sua volontà deve avere la forza del giudizio; e poiché non è possibile che la sua decisione discordi dallo spirito dell'equità, ciò che gli piace ha giustamente vigore di legge. " Dalla tua faccia -dice il Signore- preceda il Mio giudizio, ed i tuoi occhi discernano l'equità ": irreprensibile è quel giudice il cui giudizio, frutto di un'assidua contemplazione, sia immagine dell'equità. Il principe è dunque ministro della pubblica utilità e servo dell'equità; egli si assume il peso dell'intero organismo pubblico nel punire tutte le ingiustizie, tutti i torti e tutti i crimini con imparzialità. La sua verga ed il suo bastone, usati con sapiente moderazione, riconducono sulla retta via ogni deviazione ed ogni errore, cosicché lo Spirito può compiacersi, dicendo: "La tua verga e il tuo bastone mi rassicurano". Ma anche il suo scudo è forte, ed è scudo dei deboli, che para efficacemente i colpi dei maligni in difesa degli innocenti, favorendo chi è indifeso ed opponendosi con decisione a chi ama fare il male. Né è senza motivo se il principe porta la spada. Ma non ha colpa quando sparge il sangue, e se spesso uccide uomini, non va considerato un sanguinario, né incorre -di nome o di fatto- nell'omicidio.
Se infatti si dà credito al grande Agostino, Davide è detto sanguinario non per le guerre che condusse, ma per l'episodio di Uria. E da nessuna parte sta scritto che Samuele fu un sanguinario o un omicida, sebbene avesse ucciso Amalech, il grassissimo re di Agag. La spada del principe è la spada di una colomba, che combatte senza collera, ferisce
senza iracondia e, nella lotta, non concepisce alcun rancore. Infatti, come la legge persegue senza odio i colpevoli, cosa, con assoluta giustizia, il principe punisce i delinquenti mosso non dall'ira, ma dal giudizio di una legge mansueta.
Sebbene il principe abbia dei littori, si deve ritenere che egli sia il solo o il principale littore; cui però è lecito colpire anche attraverso una mano subordinata. Se seguiamo l'opinione degli stoici, che indagarono con ogni cura l'origine delle parole, si dice "littore" nel senso di "legis ictor", in quanto è suo proprio ufficio colpire chi la legge ritiene degno di punizione. Anticamente, nel momento della punizione del colpevole, il giudice diceva agli ufficiali esecutori della sentenza: "Esegui ciò che la legge ha stabilito " oppure " Metti in atto la legge ", per mitigare la triste condizione del condannato con la calma e la ragionevolezza delle parole.

Giovanni di Salisbury, Policraticus, l. IV, c. 2V, Jaka Book, Milano 1985


A chi è destinato quell'olio del peccatore che il primo dei re fedeli rifiuta e che le vergini, escluse per la loro stoltezza, vengono mandate ad acquistare dalla parola del Vangelo? A colui che è immondo -e per giusto giudizio di Dio- continua ad esserlo, desiderando risplendere nell'opinione del volgo piuttosto che ardere nel fuoco delle opere di carità.
Anche la letteratura profana ammonisce che un conto è vivere con un amico, un conto è vivere con un tiranno. Infatti non è lecito adulare un amico, mentre è lecito addolcire le orecchie di un tiranno: poiché è lecito adulare chi è lecito uccidere, ed uccidere un tiranno non solo è lecito, ma è anche equo e giusto. Infatti chi impugna la spada è degno di morire di spada. Ma si deve tenere presente che può dirsi aver " impugnato " la spada solo chi l'abbia usurpata con arroganza, non certo chi abbia ricevuto dal Signore il potere di usarla: quest'ultimo è uno strumento della legge, un servitore della giustizia e del diritto; mentre il primo affonda ogni diritto sottomettendo la legge alla sua volontà. Perciò è giusto che la legge si armi contro chi cerca di disarmarla e che il potere pubblico persegua chi tenta di sovvertirlo.
Fra i molti crimini che chi detiene il potere può commettere, nessuno è più grave di quello compiuto contro il corpo stesso della giustizia. La tirannide quindi è, un crimine non solo pubblico ma -se è possibile- più che pubblico. Se infatti un qualunque delitto di chi detiene il potere giustifica qualunque sopruso, quanto più lo farà un delitto contro quelle leggi che devono imperare su lui stesso? E’ certo che nessuno si leverà a vendicare un nemico pubblico: chi non lo combatte pecca contro se stesso e contro l'intero corpo della città terrena.

Giovanni di Salisbury, Policraticus, l. III, c. 15, Jaka Book, Milano 1985

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