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Si è visto che la catarsi aristotelica non è né la purificazione degli affetti nominati da Aristotele nel senso che siano nobilitati […], né un miglioramento dell'uomo, il quale sarebbe liberato da un eccesso di queste emozioni o dai loro residui dannosi. Due cose erano necessarie per arrivare alla soluzione giusta: in primo luogo riconoscere che il concetto di catarsi proviene dalla sfera della medicina, dove esso indica la secrezione liberatrice. In secondo luogo addurre quanto Aristotele dice della catarsi nel libro VIII della Politica (1341 a 21-24 con 1342 a 1-18). Per la Poetica risulta in questo modo che Aristotele, sempre attento agli aspetti funzionali nell'osservazione dei fenomeni, intendeva l'effetto della tragedia come la liberazione, unita al piacere, degli affetti da essa suscitati. Questo piacere specifico del tragico, il piacere provocato dall'orrore e dall'afflizione (meglio che "terrore e compassione") e dal deflusso liberatore di questi sentimenti, in quanto piacere catartico non è riprovevole per Aristotele. Così egli giunge a una concezione che supera la rigorosa esclusione platonica della rappresentazione tragica dalla comunità statale […] È ormai chiarito che per Aristotele l'efficacia catartica della tragedia non ha carattere etico. Ma ciò non vuol dire che egli negasse l'effetto morale. Egli non voleva pronunciarsi su questa questione e si sbaglierebbe a voler fare delle sue osservazioni, che hanno per oggetto l'essenza e la funzione, un programma ideologico. Pertanto non si può neppure citare Aristotele a testimone del dibattito, tanto importante per la storia culturale, sull'efficacia educatrice dell'opera d'arte.
A. Lesky, Storia della letteratura greca, tr. it. di F. Codino, Il Saggiatore, Milano 1962, vol. II, pp. 713-714