Platone
La giustizia attraverso le leggi

ATEN. Se uno a qualche cosa che è da meno dà di più violando la misura, vele alle navi, nutrimento ai corpi, potere agli uomini, tutto è sconvolto e i corpi si ammalano, per l’intemperanza, e gli uomini cadono nella ingiustizia che della intemperanza è figlia. E allora? Che dire? Forse così? Non c’è, amici miei, natura d’anima mortale che possa mai reggere il supremo potere fra gli uomini se giovane e non tenuta da responsabilità, senza gravarsi la mente della peggior malattia, la stolta ignoranza, ed aver odio dagli amici più stretti, e quando ciò avviene in poco tempo il giovane distrugge il suo pensiero e annulla tutta la sua potenza. Guardarsi da questo sulla base della conoscenza della giusta misura è proprio di grande legislatore. Che ciò venne ad essere allora è possibile ora congetturarlo con buona approssimazione. Pare ci fosse questo. MEG. Che cosa? ATEN. C’era un dio che si interessava a voi e prevedendo le cose future generò per voi doppia la stirpe dei re da una che era, riducendola così maggiormente alla giusta misura. E poi, dopo questo, una grande figura d’uomo partecipe, di natura divina, visto il vostro potere ancora troppo acceso e vigoroso, unì la saggia autorità dei vecchi alla forza superba ed esuberante della stirpe regia, e fece pari nel voto l’assemblea dei vent’otto anziani alla potenza dei re per le cose di maggiore importanza. Il vostro terzo salvatore, constatando ancora tumido e tracotante il corpo governativo, come un freno pose in lui la forza degli efori, quest’ultima rendendo quasi simile al potere dato dalla sorte. E per questa ragione il potere regio presso di voi, divenuto integrato degli elementi necessari e temperato, salvando se stesso è stato causa di salvezza agli altri. Poiché per Temeno e Cresfonte e per i legislatori di allora, quali si fossero quelli che proprio allora legiferavano, nemmeno la parte di Aristodemo la si sarebbe mai salvata; infatti non erano sufficientemente esperti di legislazione. Io credo che non avrebbero pensato che si poteva frenare con impegni giurati l’anima di un giovane che aveva preso un potere dal quale era possibile che venisse la tirannia, ed ora il dio ha mostrato quale doveva e deve venir ad essere il governo che è maggiormente stabile. E che noi conosciamo questo, come vi dissi prima, che lo conosciamo ora a cose avvenute, non è per nulla sapienza, perché per nulla è difficile vedere da un modello già attuato; ma se allora ci fosse stato qualcuno a prevedere ciò, ed avesse saputo temperare i governi e farne uno da tre, allora avrebbe fatto salvo tutto quanto di bello si era inventato e la turba persiana non avrebbe mai assalito la Grecia né alcun altro esercito, disprezzando noi come uomini degni di poca considerazione. CLIN. Dici il vero. ATEN. E si sono difesi in modo vergognoso, Clinia. Vergognoso, dico, non perché non abbiano vinto quelli di allora belle battaglie vincendo per terra e per mare. Ciò che dico vergognoso allora è questo, e cioè che, prima di tutto, di quegli stati che erano tre uno solo si è battuto in difesa della Grecia, e gli altri due erano così tristemente corrotti che uno impedì anche a Sparta di difenderla, combattendole con tutta la forza contro, l’altro poi, che quando ci fu la suddivisione primeggiava, Argo, chiamato a respingere il barbaro, né ascoltò, né portò soccorso. E se uno volesse, raccontando i fatti accaduti allora in quella guerra, potrebbe di molte cose del tutto disonorevoli accusare la Grecia, né direbbe bene affermando che la Grecia si è difesa; ma, se allora la comune decisione degli Ateniesi e degli Spartani non avesse respinto l’incombente schiavitù, sarebbero ora quasi tutte le stirpi dei Greci mescolate fra loro, e i barbari fra i Greci e i Greci fra i barbari, così come ora sono costituite le nazioni cui dominano i Persiani, disperse e commiste, confusamente disseminate. Queste cose, Clinia e Megillo, noi dobbiamo rimproverare a quegli antichi uomini politici e legislatori, come sono chiamati, e a quelli di ora affinché cercando le cause dei vari fatti troviamo quello che bisognava fare di diverso, a tale proposito, da quello che si è fatto. Per esempio noi dicemmo anche al presente che non bisognava costituire grandi poteri e non moderati da altri elementi. pensando al fatto che lo stato deve essere libero ed intelligente e concorde e il legislatore deve dare le sue leggi in funzione di ciò. Non meravigliamoci se ormai spesse volte, fatte certe premesse, abbiamo detto che il legislatore deve dare le sue leggi in loro funzione e poi le nostre premesse non risultano esser state sempre le stesse: si deve invece inferire, quando diciamo che bisogna guardare alla saggezza o all’intelligenza o alla concordia, che questo scopo non è volta per volta diverso, ma lo stesso, e non turbiamoci se molte altre parole simili a queste noi diremo. CLIN. Proveremo a far così ritornando al discorso; ed ora parla della concordia e dell’intelligenza e della libertà, e di’ a che cosa tu volevi, e stavi per dire che il legislatore dovesse mirare come prima cosa.
ATEN. Ascolta ora. Ci sono come due madri delle costituzioni politiche, dalle quali dicendo che le altre derivano sarebbe proprio esatto dire, ed è esatto chiamarne una ‘monarchia’, e l’altra ‘democrazia’. La prima tocca il suo vertice presso i Persiani, la seconda da noi. Quasi tutte le altre, come dissi, sono variazioni di queste. E’ quindi doveroso e necessario partecipare di ambedue se dovrà esserci la libertà e la concordia intelligente ed è così che il discorso vuole prescrivere che noi facciamo quando dice che uno stato non potrebbe mai essere ben costituito se non sia partecipe di loro due. CLIN. Come lo sarebbe, infatti? ATEN. E l’una avendo prediletto il governo di uno solo, l’altra la libertà più di quanto limitandosi doveva, nessuna delle due costituzioni ha mai acquisito la giusta misura né dell’una né dell’altra; le vostre costituzioni, la laconica e la cretese, l’hanno di più, gli Ateniesi e i Persiani anticamente facevano in qualche modo così, ora meno. Vediamone le cause, vero? CLIN. Certamente se in qualche modo vogliamo arrivare a capo di quanto abbiamo proposto di fare. ATEN. Ascoltiamo insieme. I Persiani, quando di più stavano in mezzo fra schiavitù e libertà con Ciro, dapprima si resero liberi e poi padroni di molti altri popoli. Rendendo comune infatti essi, quando furono al comando, la libertà ai sudditi e guidandoli alla uguaglianza, maggior mente amati erano i generali dai soldati e questi generosamente si offrivano nei pericoli. E se poi ci fosse stato qualcuno intelligente fra loro e capace di dar consiglio, poiché non era invidioso il re, e concedeva libertà di parola e onori a coloro che sapevano darlo, poneva in comune e a disposizione di tutti la forza della mente e allora ogni bene progredì per i cittadini sempre per mezzo della libertà e della concordia e della collaborazione degli intelletti. CLIN. E’ verosimile che sia stato così come si è detto. ATEN. Come mai allora ciò fu rovinato sotto Cambise, e di nuovo, direi, salvato con Dario? Volete che noi cerchiamo quasi di indovinarlo col pensiero? CLIN. Questo conduce la nostra ricerca dove tendeva quando si è mossa. ATEN. Io credo ora di divinare riflettendo su Ciro che, se era un buon generale amante della patria, proprio non aveva ricevuto una retta educazione e non s’era mai interessato di amministrazione domestica. CLIN. Come possiamo dir così? ATEN. Sembra che fin da giovane egli combatté, e per tutta la vita, e diede da educare i figli alle donne. Queste li allevavano come fin da bambini essi già fossero felici e beati, immediatamente, come se non avessero avuto nessun bisogno di nessuna educazione. E come fossero sufficientemente tali impedivano a chiunque di contrariarli in qualsiasi cosa, anzi costringevano tutti a lodare tutto ciò che facevano o dicevano e perciò li allevarono esattamente quali furono. CLIN. Hai parlato proprio di una meravigliosa educazione, come è evidente. ATEN. Educazione femminile, di donne di corte da poco arricchite, che allevavano i figli senza controllo di uomini, occupati questi nella guerra e in molte imprese pericolose. CLIN. Così questo si spiega. ATEN. E il padre poi conquistava per loro greggi e mandrie e molte schiere di uomini e molte altre cose e non sapeva che quelli cui doveva lasciare tutta questa roba non erano educati all’arte dei padri, all’arte persiana i Persiani erano pastori, venivano da una terra aspra e dura, buona a fare pastori forti, capaci di dormire sotto il cielo, capaci di vegliare la notte, di combattere se bisognava combattere; egli stette fermo a guardare le donne e gli eunuchi che insegnavano ai figli suoi l’educazione corrotta da quella cosiddetta beatitudine, l’educazione meda, donde furono, come era naturale fossero, allevati senza essere corretti. Quando i figli presero il comando alla morte di Ciro, tuffati nel lusso, senza conoscere freno, prima l’uno uccise l’altro, non sopportando d’essergli uguale, e poi egli stesso impazzito dal vino e dall’ignoranza perdette il potere per mano dei Medi e di quello che allora si diceva l’Eunuco che seppe disprezzare la stoltezza di Cambise. CLIN. Così si racconta e par verosimile che così sia presso a poco avvenuto. ATEN. E si dice poi che in qualche modo il potere tornò di nuovo ai Persiani per mezzo di Dario e dei Sette. CLIN. Sì. ATEN. Vediamo seguendo il racconto. Dario, che non era figlio di re e non fu educato con una educazione di lusso, venuto al potere e presolo come uno dei Sette, divise l’impero distinguendolo in sette parti, di cui anche ora sono rimaste lievi tracce. Egli riteneva opportuno di governare lo stato introducendo per legge una certa comune uguaglianza, e il tributo di Ciro, che questi promise ai Persiani, egli lo regolò con la legge, fornendo amicizia e unione a tutti i Persiani e legandosi il popolo di questi con doni e ricompense; così gli eserciti ben volentieri conquistarono per lui una non minore estensione di terre di quella che aveva lasciato Ciro. Dopo Dario, Serse, nuovamente educato con educazione regale e di lusso - "O Dario", si potrebbe dire forse e sarebbe giustissimo, "tu non hai capito Terrore di Ciro, hai allevato Serse negli stessi costumi in cui Ciro Cambise" - Serse, in quanto figlio della stessa forma di educazione, presso a poco ricadde in tutti i vizi di Cambise e da allora, direi, nessun re fra i Persiani mai più è stato grande veramente all’infuori che di nome. E la causa non è della fortuna, per seguire il mio discorso, ma è la vita dissoluta che i figli dei grandi ricchi e dei tiranni per lo più conducono. Non ci sarà mai infatti un giovane o un uomo o un vecchio che eccella in virtù dopo tale educazione. E a questo, noi lo diciamo, deve stare attento il legislatore, e anche noi ora. Ed è giusto, Spartani, riconoscere questo merito al vostro stato e cioè che voi non attribuite nessun onore o educazione speciale, di nessun genere, ai poveri oppure ai ricchi, ai cittadini privati o ai re, se non l’abbia stabilito quasi per vaticinio all’origine della nostra storia quell’essere divino che vi diede le leggi, in nome di un dio. Non devono infatti esserci in uno stato gli eccessivi onori accordati a qualcuno perché sia eccessivamente ricco, né perché sia veloce o bello o forte senza una certa virtù, né la virtù li deve avere che manchi della saggezza e della temperanza. MEG. Perché dici questo, ospite?
ATEN. Il coraggio non è in qualche modo una parte della virtù? MEG. Come no? ATEN. E tu allora, giudica tu che hai ascoltato il mio discorso e dimmi se accetteresti di avere uno che viva con te, o un vicino, molto coraggioso e non saggio ma intemperante. MEG. Non dir così! Risparmiami queste parole. ATEN. E allora? Vorresti un artigiano sapiente nella sua arte e ingiusto? MEG. Mai. ATEN. Ma la giustizia non nasce separata dalla saggia temperanza. MEG. E come potrebbe? ATEN. E nemmeno ne vive separato allora quell’uomo e noi poco fa abbiamo definito sapiente, se è capace dì accogliere in sé i piaceri e le sue sofferenze in armonia conseguenti al giusto discorso della ragione. MEG. No infatti. ATEN. E allora vediamo anche questo a proposito degli onori che vengono resi negli stati; quali risultano giusti e quali no, in ogni occasione. MEG. Che cosa? ATEN. La saggia temperanza senza tutta l’altra virtù in un’anima, da sola, risulterebbe giustamente degna o no di un riconoscimento che la onori? MEG. Non so che dire. ATEN. E hai detto bene; rispondendo in un senso o nell’altro a quanto ho domandato mi pare che tu avresti detto un errore. MEG. Allora direi che è andata bene. ATEN. Bene. Ma ciò che è appendice di quel tutto cui complessivamente si riferiscono le valutazioni onorevoli o disonorevoli non è degno di parola, ma piuttosto di un certo discreto silenzio. ME . Mi pare che tu parli della saggia temperanza. ATEN. Sì. Quelle delle altre virtù che congiunte a questa ci sono maggiormente di utilità sarebbero giustamente onorate da chi le onorasse moltissimo e parimenti giusto sarebbe per ciò che viene subito dopo un apprezzamento di secondo grado. Così se ciascuna cosa secondo quest’ordine ricevesse onori seguenti l’uno all’altro avrebbe quello che le spetta con esattezza. MEG. E’ così. ATEN. E allora ? Non diremo che deve lo stesso legislatore distribuire anche tutto ciò? MEG. Ma certamente. ATEN. Vuoi che affidiamo a lui il compito di distribuire ogni cosa, per ciascuna nostra fino alle minuzie, e noi, poiché anche noi in certo siamo desiderosi di dare le leggi, vuoi che proviamo a dividere in tre parti la materia, a separare gli argomenti principali da quelli che vengono al secondo ed al terzo posto? MEG. Ma sì. ATEN. Noi diciamo allora, ed è evidente, che quello stato il quale vuole conservarsi e esser felice, per quanto è possibile alle forze umane, deve di necessità distribuire correttamente gli onori e le riprovazioni disonorevoli. Si dice quindi correttamente ponendo come i più onorevoli e i più importanti i beni propri dell’anima, dell’anima saggia e temperante, e poi la bellezza e i beni del corpo e in terzo luogo i cosiddetti beni relativi al patrimonio e alle ricchezze; se un legislatore o uno stato esca da quest’ordine nell’assegnare i primi onori alla ricchezza e ponga con gli onori che attribuisce qualcuna delle cose che seguono per valore fra quelle che precedono, non farà un’opera né santa né politica. Sia detto così o come diversamente? MEG. Sia detto così certamente e con chiarezza. ATEN. Fu l’esame della costituzione persiana che ci fece parlare estesamente di queste cose. Noi troviamo anche che essi sono peggiorati ancora e affermiamo che la causa fu il fatto che tolsero troppo la libertà al popolo e instaurarono un dispotismo troppo duro e così distrussero la concordia e l’unità dello stato. Morte queste cose le deliberazioni dei governanti non si rivolgono più ai sudditi e al popolo, ma al loro potere, ogni volta che credono di poter possedere qualche piccola cosa di più, e col fuoco rovesciano le città dalle fondamenta, distruggono i popoli amici e con nemico odio spietato odiano e sono odiati. E quando giungono alla necessità di far combattere i popoli per i loro interessi nulla di comune trovano di aver con essi, nulla che si accompagni allo slancio ed alla volontà di arrischiare e di battersi, ma pur possedendo infinito numero di uomini, e incalcolabile, nessuno è utilizzabile in guerra di quelli che posseggono e come fossero poveri d’uomini li comprano e credono di salvarsi con milizie mercenarie e straniere. Per di più li trascina la legge delle cose alla stoltezza, dicendo in pratica che è sempre cosa da nulla ciò che si dice buono e onorevole nello stato di fronte all’oro e all’argento. MEG. E’ proprio così.
ATEN. Così per quanto si riferisce ai Persiani e al fatto che ora da loro non è ben governato lo stato per la troppa servitù da una parte e l’esagerato potere dall’altra, possiamo fermarci. MEG. Va bene. ATEN. Dopo ciò, noi dobbiamo analizzare analogamente la costituzione attica e dimostrare come l’assoluta libertà da ogni potere è molto peggiore di un potere che ha in altre forze un suo limite; in quel tempo infatti in cui la spedizione persiana piombò sui Greci e quasi tutti gli europei, noi avevamo una antica costituzione e i vari magistrati provenivano da quattro classi di cittadini, basate sul censo, e c’era dentro di noi la signoria di un certo pudore per cui eravamo noi che volevamo vivere servendo le leggi di allora. E poi quell’enorme turba sopravvenuta per terra e mare seminando un invincibile terrore fece più stretta la nostra dipendenza dai governanti e dalle leggi e per tutto ciò si diede fra noi una più intensa concorde amicizia. Quasi dieci anni prima della battaglia navale di Salamina giunse Dati a capo di un grande esercito persiano e lo mandava Dario espressamente contro gli Ateniesi e gli Eretriesi perché glieli conducesse schiavi; gli promise la morte se non avesse condotto a termine l’impresa. Dati in un lampo prese di forza gli Eretriesi con tutte le sue innumerevoli enormi schiere e fece correre verso di noi una notizia paurosa: nessuno degli abitanti di Eretria gli era sfuggito; i suoi soldati infatti tenendosi per mano avevano preso nella loro rete tutta la regione eretriese. La notizia o vera o no, comunque sia arrivata, prostrò gli altri Greci e gli Ateniesi e a questi, che in ogni parte mandarono ambasciatore, nessuno voleva dar aiuto all’infuori degli Spartani; essi per la guerra che avevano allora contro Messene e non so dire se per qualche altro impedimento - non sappiamo infatti ciò che si diceva esser accaduto - arrivarono un giorno dopo che la battaglia di Maratona era già avvenuta. In seguito si sparse la voce di grandi preparativi e di infinite minacce da parte del Re. Dopo un certo tempo si venne a sapere che Dario era morto e il suo figlio giovane ed impetuoso aveva preso il potere in sua vece e non desisteva per nulla dall’intento aggressivo. Gli Ateniesi pensavano che tutto ciò si macchinava contro di loro a causa di quanto era avvenuto a Maratona e sentendo che il monte Athos era stato perforato e l’Ellesponto congiunto e saputa la moltitudine di navi non credettero più di salvarsi né in terra né in mare, nessuno infatti li avrebbe aiutati; si ricordavano che nemmeno la prima volta quando quelli vennero e distrussero Eretria nessuno li soccorse e volle arrischiare di allearsi a loro; prevedevano così che anche allora si sarebbe ripetuto lo stesso sul campo, e in mare vedevano assoluta impossibilità di salvezza perché le navi che sopravvenivano erano mille e anche più. Una sola via d’uscita concepivano, angusta ed incerta, ma unica d’altra parte, guardando ciò che era accaduto la prima volta, e cioè che anche allora parve nascere da circostanze impossibili la vittoria alla loro guerra; portati da questa speranza trovavano sola via di scampo in se stessi e negli dèi. Tutti questi fatti stabilivano fra di loro la concordia: la paura allora presente e quella nata dalle leggi di prima. Questa essi l’avevano acquistata obbedendo a quelle leggi e noi spesso nei discorsi precedenti l’abbiamo detta pudore e dicevamo anche che devono obbedire per essa tutti quelli che si studiano di diventare retti, e ne è libero e quindi temerario il disonesto; e se allora l’altro terrore non avesse stretto chi era tale, egli non si sarebbe mai raccolto con gli .altri a difesa, né avrebbe difeso i templi e le tombe, la patria e ciò d’altro che gli era familiare ed i suoi amici, come li aiutò allora, ma ciascuno di noi in piccoli gruppi proprio in tale frangente si sarebbe staccato e chi da una parte, chi dall’altra disperso. MEG. Proprio bene, ospite, tu hai parlato, in modo degno di te e della tua patria.
ATEN. Proprio così, Megillo; è giusto dire a te quanto avvenne nel tempo d’allora, a te che per nascita partecipi dei sentimenti che ebbero i tuoi antenati per noi. E guarda anche tu, anche Clinia, se diciamo cose che sono utili e convenienti alla legislazione; io non parlo per amor di parlare, ma per la cosa di cui parlo. E lo vedete; perché da un certo punto di vista era accaduto da noi lo stesso male dei Persiani ed essi trascinarono il popolo nell’estrema schiavitù, noi al contrario spingemmo le moltitudini all’estrema libertà, e per definire come e che cosa dobbiamo dire d’ora in avanti è certo che i discorsi già fatti da noi prima sono stati in certo modo ben fatti. MEG. Va bene, ma prova a indicarci più chiaramente quello che hai voluto dire ora. ATEN. Farò così. Il nostro popolo, amici, nelle leggi antiche non era signore di nulla, ma invece ne era quasi il volontario servitore. MEG. A quali leggi ti riferisci? ATEN. Prima di tutto alle leggi sulla "musica" di allora, affinché così fin da principio possiamo seguire gli sviluppi della libertà eccessiva di vita. Da noi infatti allora la "musica" si distingueva in certi suoi aspetti e figure e un certo aspetto del canto era costituito di preghiere agli dèi: si chiamavano col nome di ‘inni’; il suo opposto era un altro aspetto del canto (proprio questi si sarebbero dovuti chiamare thrènoi), e un altro erano i ‘peana’ e poi ce n’era un altro detto ‘ditirambo’, ed è la ‘nascita di Dioniso’, credo. Inoltre un’altra specie di canto chiamavano proprio con questo nome di ‘leggi’ come fosse diversa, e le dicevano ‘canti citaredici’. Fissati questi ed altri aspetti del canto, non era lecito servirsi di uno al posto di un altro. Ma l’autorità di controllare queste cose e, conseguentemente alla ricognizione, di giudicare e poi di punire il ribelle non era di certo nei fischi né in certe urla scomposte della plebe, come ora è, e non erano i battimani che sancivano la lode: quelli che avevano una compiuta educazione era stabilito che ascoltassero in silenzio fino in fondo e gli altri, i bambini, i pedagoghi e la maggior parte della plebe, erano richiamati all’ordine da una verga che li teneva a posto. In queste cose, secondo questa disciplina, la massa dei cittadini accettava d’esser diretta e non osava giudicare con lo strepito; ma poi coll’andar del tempo i poeti furono maestri di disordinate trasgressioni, poeti solo nel temperamento, ignoranti delle giuste norme di poesia, come baccanti più del dovuto trasportati dal piacere, e mescolavano i thrènoi agli inni e i peana ai ditirambi, imitavano la musica del flauto con quella della cetra e, confondendo tutto con tutto, involontariamente esprimevano per stolta ignoranza menzogne sulla "musica", che cioè la "musica" non ha una sua correttezza di nessun tipo e si possa ben giudicare dal piacere di chiunque lo provi, sia esso uomo onesto o disonesto, indifferentemente. Facendo simili opere, dicendo su di esse siffatti discorsi, hanno infuso nel popolo l’uso di trascurare le leggi sulla "musica" e la pretesa temeraria d’esserne buoni giudici; dì conseguenza i teatri da silenziosi furono pieni di grida come fosse il pubblico ad intendere il bello e il non bello poetico e al posto dell’aristocrazia è sorta una cattiva teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte. Se infatti solo per essa fosse sorta una democrazia d’uomini liberi non sarebbe stato per nulla grave l’accaduto. Ma nel nostro stato ora si originò dalla "musica" l’opinione chè tutti sappiamo tutto, e l’illegalità e per conseguenza la 1icenza. Come fossero tutti stati sapienti diventavano impavidi e l’audacia ingenerò l’impudenza. Non rispettare per temerarietà l’opinione di chi è migliore, questo, non altro, direi, è la malvagia impudenza, nata da una libertà troppo spinta. MEG. E’ verissimo quello che dici.
ATEN. Di seguito a questa libertà può sopravvenire quella di negare la sottomissione ai magistrati e conseguentemente sfuggire alla sottomissione ed al richiamo del padre e della madre e degli anziani, e procedendo, quando si è presso all’estremo, cercar di afmente non curarsi dei giuramenti, delle promesse, nemmeno degli dèi, per nulla, mostrando e imitando la tramandata antica indole dei Titani, ritornando alla stessa situazione di quelli, vivere cioè una vita eterna penosa senza mai sollievo dai mali. Perché abbiamo detto anche questo? Mi pare che io devo riafferrare il discorso ogni volta come un cavallo, e non farmi, come fosse senza freno in bocca, trascinare dalla forza delle parole, sì da lasciarmi cadere da un asino, così è il proverbio; io devo invece domandare a ciò che or ora fu detto perché è stato detto così da me. MEG. Bene. ATEN. E’ stato detto per quelle cose. MEG. Quali? ATEN. Abbiamo detto che il legislatore deve legiferare cercando tre obiettivi e cioè perché il suo stato che ottiene le leggi sia libero e concorde in se stesso e intelligente. Era così, non è vero? MEG. Sì. ATEN. Allora a questo scopo scelte due costituzioni, la più dispotica e la più liberale, stiamo studiando ora quale di queste è ben costituita; avendo supposto in ciascuna di esse una certa limitazione, da una parte all’autorità del tipo proprio dell’una, dall’altra alla libertà, abbiamo rilevato che allora si realizza in esse un grandissimo benessere, ma se l’una e l’altra si trascinano agli estremi da una parte della servitù, dall’altra del contrario, ciò non giova né per l’una né per l’altra. MEG. Verissimo quello che dici. ATEN. A questo scopo abbiamo esaminato anche l’esercito dei Dori, nel suo stabilirsi, e le falde di Dardano e la città fondata vicino al mare e i primi uomini salvati dalla distruzione ed i nostri discorsi a questi precedenti sulla "musica" e il bere, e quelli prima ancora di questi. Si è parlato di tutto ciò per osservare come potrebbe essere costituito bene al massimo grado uno stato e, privatamente, come un individuo potrebbe condurre bene la sua vita, nel modo migliore possibile. Che abbiamo fatto qualche cosa di utile così, quale prova, Megillo e Clinia, potremmo recare a noi stessi? CLIN. A me pare di averne una presente alla mente, ospite. Pare che per precisa volontà della sorte noi abbiamo fatto tutti questi discorsi che abbiamo percorso. Direi proprio che io ora sono arrivato al punto di aver bisgillo, qui, sei venuto al momento giusto. Non vi nasconderò di più quello che mi sta accadendo e lo terrò anche per buon augurio. La maggior parte della popolazione di Creta intraprende la deduzione di una colonia e affida ai Cnossii la cura della faccenda, i Cnossii l’hanno devoluta a me e ad altri nove. Ci hanno invitato anche a porvi leggi patrie, se alcune, almeno, ci paiono adatte, ed anche altre straniere, se ci sembrano migliori, senza tener conto del fatto che mo come un favore questo a me ed a voi e, riprendendo da quanto abbiamo detto, costruiamo uno stato con la parola, e quasi gettiamone le basi, e così insieme noi continueremo l’indagine sul nostro oggetto di ricerca ed io forse potrò usare per il futuro stato questo piano di costituzione. ATEN. Non annunci una guerra, Clinia; e se Megillo non ha nulla in contrario, per conto mio ritieni che ogni cosa sarà secondo il tuo intendimento, per quanto si potrà. CLIN. Dici bene. MEG. Anche per conto mio. CLIN. Avete detto benissimo. Proviamo in primo luogo allora a stabilire la costituzione del nostro stato con il discorso.

Platone, Leggi, III, 691c – 702e, in Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1980

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