Platone
Socrate e l’intellettualismo etico

E ancora dimmi, o Melèto, che cos’è meglio, vivere tra buoni cittadini o tra cittadini malvagi? O amico, rispondi: niente di difficile ti domando. I malvagi non fanno del male a quelli che via via più gli avvicinano, e i buoni del bene? - Certo. - E dì, ci può essere uno che da quelli che stanno insieme con lui preferisca aver male anzi che bene? Rispondi, brav’uomo. Anche la legge vuole che tu risponda. Ci può essere uno che preferisca aver male? - Ma no, affatto. - Dimmi ora, tu mi porti qui in tribunale perché volontariamente corrompo i giovani e li faccio malvagi, oppure involontariamente? - Volontariamente, io dico. -O come, Melèto, tu, così giovane, sei tanto più sapiente di me, così vecchio, da conoscere che i malvagi fanno sempre del male a coloro che via via più gli avvicinano, e i buoni del bene; e io sono tanto ignorante da non sapere neanche questo, che se fo malvagio alcuno di quelli che stanno con me corro il pericolo di ricevere male anch’io da colui? E tutto questo male io lo faccio volontariamente, come dici tu? Di codesto, o Mèleto, non riesco a persuadermi; né, credo, alcun altro si persuaderebbe. Dunque, o io i giovani non li corrompo, o, se li corrompo, non li corrompo volontariamente; e tu, nell’un caso e nell’altro dici il falso. E se li corrompo involontariamente, per colpe di codesto genere, cioè involontarie, la legge non vuole si trascini qua alcuno, bensì che lo si prenda da parte e si istruisca e ammonisca; perché è chiaro che, quando avrò imparato, quello che faccio involontariamente, non lo farò più. Ma tu hai evitato sempre di trovarti con me e di istruirmi; non hai mai voluto; e ora mi meni qui dove la legge vuole si menino quelli che hanno da esser puniti, non quelli che hanno da essere istruiti.

Platone, Apologia, 25 c - 26 a, da Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1980


Socr. - Ecco quanto avremmo potuto rispondere alla maggioranza. E ora, insieme a Protagora, chiedo a voi, o Ippia, o Prodico (anche a voi sia comune il discorso), se vi sembra che abbia detto la verità o mi sia sbagliato. Oltre ogni aspettativa tutti furono dell’opinione che quel che si era detto fosse vero. - Ebbene, dissi, siete allora d’accordo nel sostenere che il piacere è bene, il dolore male. E mi raccomando di accantonare le sottili distinzioni di Prodico sul significato delle parole: ottimo Prodico, che tu lo denomini piacevole, o dilettevole, o gradevole, o come meglio ti piaccia, rispondi, comunque, tenendo conto della mia intenzione. Ridendo Prodico fu d’accordo e così gli altri. - E che pensate, amici, dissi, di quest’altro aspetto della questione? Tutte le azioni che tendono ad assicurare una vita esente da dolore e piacevole, non sono forse belle? E l’opera bella non è forse buona e utile? Furono della stessa opinione. - E allora, seguitai, se il piacere è bene, nessuno, sapendo o credendo che altre possibili azioni siano migliori di quelle che compie, fa le peggiori, mentre potrebbe compiere quelle migliori. E l’essere vinto da se stesso è ignoranza, il vincere se stesso sapienza. Furono tutti della stessa opinione. - Non solo, ma non è questo che chiamate ignoranza, avere una falsa opinione e ingannarsi su cose di grande valore? Anche su questo furono tutti d’accordo. - E quali altre conclusioni trarre, proseguii, da quel che si è detto, se non queste: che nessuno volontariamente si volge a ciò che è o che ritiene male; che, sembra, è contrario all’umana natura ricercare ciò che si ritiene male invece del bene; e che quando si è costretti a scegliere tra due mali, nessuno preferirà il più grande potendo scegliere il minore. Fummo tutti d’accordo nel ritenere che tutto questo fosse vero. - E allora?, seguitai, cosa chiamate timore e paura? Date loro lo stesso significato che dò io -? Mi rivolgo a te, Prodico! Io, con l’uno e l’altro termine, intendo una certa aspettativa di un male, sia da voi chiamata timore o paura. A Protagora e ad Ippia sembrò che appunto questo fossero il timore e la paura; a Prodico, invece, che fosse il timore, non la paura. - Ma ora, Prodico, non ha nessuna importanza distinguere tra i significati, quel che importa è altro! Se tutto quello che abbiamo detto è vero, ci sarà forse uomo che vorrà muoversi incontro a ciò che desta in lui timore, quando potrebbe andare incontro a ciò che non teme? O è impossibile, dopo quanto abbiamo convenuto? Ciò che si teme, siamo rimasti d’accordo, è ritenuto un male, e nessuno volontariamente si muove incontro a quello che ritiene un male, né lo sceglie. Anche su questo furono tutti della stessa opinione.

Platone, Protagora, 358 a-359a, da Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1980


Socr. - Ma no!, esclamai. Non altro fine hanno tutte queste mie domande, se non la mia volontà di indagare in che consista ciò che concerne la virtù e cosa mai essa sia. Sono convinto che, chiarita tale questione, altrettanto chiaro diverrebbe se la virtù sia o no insegnabile, ciò su cui tu ed io, l’uno dopo l’altro, abbiamo tenuto si lungo ragionamento, io per sostenere che la virtù non è insegnabile, tu, invece, che lo è. Ebbene, mi sembra che l’esito dei nostri ragionamenti, cui siamo giunti ora, come se fosse personificato, ci accusi e ci derida, e, se potesse prendere la parola, ci direbbe: "Che uomini curiosi siete, o Socrate, o Protagora! Tu Socrate, il quale prima sostenevi che la virtù non è insegnabile, sei ora tutto intento a metterti in contraddizione con te stesso, cercando di dimostrare come tutto sia scienza, la giustizia, la temperanza, il coraggio, che è poi l’argomento migliore per mostrare che la virtù è insegnabile: ché se la virtù fosse altro dalla scienza, come si sforzava di sostenere Protagora, evidentemente non sarebbe insegnabile. Se ora, invece, risulterà che, in tutto e per tutto, è scienza, come tu, Socrate, cerchi di chiarire, sarebbe da stupirsi se non fosse insegnabile. Protagora, invece il quale si fondava allora sul presupposto che la virtù è insegnabile, ora sembra tutto preso dal sostenere il contrario, sì che la virtù per un pelo non si rivela esser tutto fuori che scienza: se così fosse non sarebbe affatto insegnabile". Ecco perché, Protagora, vedendo io come tutti i nostri discorsi siano terribilmente andati sottosopra, ho il più vivo desiderio di chiarire fino in fondo la questione, e vorrei che noi, i quali abbiamo discusso tali problemi, discutessimo anche su che cosa sia la virtù; solo allora potremo di nuovo ricercare se essa sia insegnabile oppure no, sì che il nostro Epimeteo non ci faccia cadere in errore, ingannandoci, come anche nella distribuzione trascurò l’uomo, secondo le tue parole. Anche nel mito, Prometeo mi è piaciuto più di Epimeteo, e mettendomi sulla sua traccia, per provvedere appunto alla mia vita in tutta la sua intierezza, mi preoccupo di tutti questi problemi, e, se lo vuoi, come ho detto fin dal principio, mi farebbe piacere seguitare a trattarne insieme a te. E Protagora: - Socrate, disse, io lodo la tua intenzione e il modo con cui svolgi i tuoi ragionamenti. No, io non credo d’essere un uomo cattivo sotto tutti gli aspetti e meno che mai invidioso, tanto è vero che già di fronte a molti ho detto che tra gli uomini in cui mi sono imbattuto apprezzo te più di tutti, particolarmente tra i tuoi coetanei; sostengo, anzi, che non mi stupirei se tu divenissi famoso per sapienza. Ma su tutto questo torneremo, quando tu voglia, in un altro momento: ora è tempo di pensare ad altro. - Certo, dissi, dobbiamo fare così, se ti sembra. Anche per me si è già fatto tardi ed è già l’ora di andare dove ho detto, e, se sono rimasto, è stato solo per essere cortese con il bel Callia. Dopo esserci scambiate queste ultime parole, ce ne andammo.

Platone, Protagora, 360 e-362a, da Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1980

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